sabato 7 maggio 2016
Relazione al Parlamento: dai 2,9 miliardi di euro del 2014 agli 8,2 del 2015. Ma nelle carte si omettono i paesi di destinazione. Emergono gli affari con i signori della guerra.
L'Italia triplica l'export di armi
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L’export di armi da guerra italiane è triplicato, con un giro d’affari passato dai 2,9 miliardi di euro del 2014 agli 8,2 miliardi nel 2015. Solo un mese fa si credeva che le vendite all’estero fossero in leggero calo. Adesso si scopre che quelle informazioni erano state fatte circolare in modo incompleto. Gli effetti collaterali – vittime civili e milioni di profughi – non entrano a far parte dei bilanci dei signori della guerra.  Appena due giorni fa è stata resa pubblica la Relazione annuale alle Camere sulle autorizzazioni all’export da parte del governo italiano. Cinque volumi di numeri, grafici, e tante omissioni. In totale sono stati 2.775 i nulla osta rilasciati, ma nelle 366 pagine dedicate all’elenco dei permessi ac- cordati viene tralasciato il dato più importante: il Paese destinatario. Una mancanza di trasparenza che si ripete da tempo ma che non impedisce, incrociando i dati, di fare alcune scoperte. Se le rilevazioni di Istat ed Eurostat, elaborate da diverse organizzazioni per il disarmo, lasciavano immaginare una contrazione delle vendite vicina al 4%, la Relazione riferisce invece di scambi commerciali il cui valore, curiosamente, non figura nel fatturato complessivo. Si tratta dei 3,2 miliardi di euro incassati dai produttori di armi grazie ai programmi di cooperazione intergovernativa, che coinvolgono prioritariamente Paesi Nato e Ue, tanto che non si può escludere che anche per gli anni precedenti i dati fossero parziali e perciò da rivedere tutti al rialzo. Non importa che ad acquistare siano indistintamente democrazie tutt’altro che bellicose o spietati dittatori. Dalla Norvegia (389 milioni), a Singapore (381 milioni), agli Usa (344 milioni) fino agli Emirati Arabi (304 milioni) e al Turkmenistan (19 milioni). E sono prodotte in Italia, come denunciato più volte da Avvenire, gli oltre 5.000 ordigni assemblati in Sardegna dalla multinazionale tedesca Rvm e destinati ai caccia dell’Arabia Saudita, che stanno facendo stragi di civili nello Yemen. Per la prima volta, infatti, l’Italia «non ha emesso dinieghi all’export», si legge nella relazione del governo. In altre parole, nessuna vendita è stata vietata. Neanche i 3.600 fucili e le 3.000 pistole per le forze speciali di al-Sisi, le stesse sospettate di avere avuto un ruolo nel sequestro e nell’omicidio del ricercatore Giulio Regeni. Anche la Turchia, con cui è in corso il controverso negoziato sul rimpatrio dei profughi siriani, ha raddoppiato la spesa in armi italiane: 128,7 milioni a fronte dei 52,4 del 2014. «Autorizzare qualsiasi transazione – osserva Giorgio Beretta, esperto dell’Osservatorio sulle armi leggere e le politiche di sicurezza (Opal) di Brescia – mina alla base la posizione comune dell’Ue sulla vendita delle armi: uno strumento importante, che impone ai Paesi favorevoli a una determinata vendita di spiegare perché la pensino diversamente da chi invece si era opposto». Se l’Italia avesse bloccato le vendite all’Egitto, suggerisce Beretta, ogni altro Paese membro prima di chiudere un contratto con Il Cairo avrebbe dovuto, per obbligo europeo, informarsi sul perché dell’ipotetico no italiano. Mancando il controllo preventivo, «tutti si sentiranno liberi di esportare». Senza limiti.
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