
Dagli Oceani alle arterie dell'uomo, micro e nanoplastiche sono sempre più pericolose - .
Quando, un anno fa, uno studio italiano dimostrò per la prima volta il danno causato dalle micro e nanoplastiche sulla salute umana, rivelandone la presenza nelle placche aterosclerotiche delle arterie, il New England Journal of Medicine - considerato il più autorevole periodico internazionale di medicina - non esitò ad accreditare la ricerca come «una scoperta rivoluzionaria». Prima di tutto per gli effetti: la percentuale di rischio di infarto e ictus, veniva evidenziato nel lavoro italiano, risulta più che raddoppiata.
I dati raccolti su 257 over 65, seguiti per 34 mesi, mostrano che le placche “da inquinamento” sono più infiammate, quindi più friabili ed esposte a rischio di rottura, e quindi di patologie mortali. A ideare lo studio, coordinato dall’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” - e al quale hanno collaborato la Harvard Medical School di Boston, l’Irccs Multimedica di Milano, le Università Politecnica delle Marche, Sapienza di Roma e Salerno e l’Irccs Inrca di Ancona -, è stato Raffaele Marfella, professore ordinario di Medicina Interna alla Vanvitelli.
Professore, il “rumore” di questa ricerca è ancora fortissimo. Ve l’aspettavate?
Lo studio ha ottenuto un riscontro mondiale. Siamo stati chiamati a intervenire e ad aprire congressi scientifici internazionali, a confrontarci con i migliori esperti di ogni parte del globo, a rispondere alle domande dei maggiori media non solo italiani. La cosa più positiva è stata la ricaduta sull’opinione pubblica, perché la consapevolezza di questo problema finisce per sensibilizzare tutti: comunità scientifica, istituzioni, cittadini. Crediamo di aver inaugurato un filone di studi di estremo interesse, e continuiamo a lavorare per dimostrare un nuovo fattore di rischio cardiovascolare.

Il professor Raffaele Marfella - .
Adesso cosa farete? Ci sono le condizioni per continuare a cercare, a studiare?
Per una volta, me lo faccia dire con un po’ di orgoglio, la sfida parte da Napoli. È nata qui e qui si svilupperà.
In che modo?
Nell’Università Vanvitelli abbiamo creato un centro di ricerca ad hoc sui danni da micro e nanoplastiche sull’organismo umano. Rilevata la portata di questi studi, e inoltrandoci nei meandri di rischi ancora inesplorati per l’uomo, si è deciso, assieme al rettore Gianfranco Nicoletti, che ci sta supportando in ogni fase e che crede moltissimo nelle nostre ricerche, di rendere permanente questo impegno. Con conseguenze già dietro l’angolo, visto che siamo nell’imminenza di pubblicare ulteriori studi a livello internazionale.
Come opererà questo centro?
Nel Dna del centro ci sono tre linee di ricerca: la prima si basa sui meccanismi di fisiopatologia. Dobbiamo cioè capire nel dettaglio che tipo di danno la plastica arreca. Cosa succede quando la plastica entra nell’organismo, raggiunge gli organi, e quando provoca una malattia. La seconda linea di nostro interesse è la diagnostica: dobbiamo identificare la malattia cercando di fare una diagnosi precoce. Terzo aspetto: sottoporre il paziente ad una terapia efficace per ridurre o per eliminare il danno. Vogliamo rispondere appieno alla necessità di una completa “prevenzione secondaria”.
E quella primaria?
Certamente è di nostro interesse ma, in questo caso, medici e ricercatori possono fare davvero poco. La prevenzione primaria è un problema “politico-sociale” ed economico, perché riguarda le azioni dei governi tese a ridurre l’uso della plastica, a impedire che entri nel nostro organismo. Compito tutt’altro che agevole perché viviamo in un mondo di plastica.
Come si fa a identificare la plastica nell’organismo umano?
Lo standard attuale consiste nell’eseguire una biopsia, cioè prelevando pezzi di tessuto. Si tratta però di un esame invasivo, impensabile da effettuare su larga scala. Stiamo allora studiando come sostituire la biopsia con l’analisi del sangue, dove è possibile trovare tracce già adesso. Il problema è che la plastica difficilmente rimane nel sangue in modo stabile, perché ha grandezze e composizioni mutevoli: una parte viene inglobata dalle cellule, un’altra parte si deposita. Per ovviare a questo problema, abbiamo allora pensato di cercarla in quelle cellule del sangue che la “mangiano” letteralmente: perché il 70% delle quote di plastica che circola viene inglobata da queste cellule. Non solo. Stiamo poi sviluppando, con radiologi e ingegneri biomedici della Vanvitelli, un ulteriore metodo di accertamento, che prevede l’utilizzo di Risonanza magnetica e Pet-tac gestite da un software di Intelligenza artificiale.
A che punto siete?
Io sono ottimista di natura, ma oggettivamente stiamo facendo grandi passi avanti.
E cosa si fa quando le analisi rivelano la presenza di plastica nell’organismo?
Stiamo analizzando due opzioni terapeutiche. Una di immediata applicazione, l’atra che richiede più tempo. Partiamo dalla prima: siccome la presenza di un corpo estraneo nell’organismo provoca una infiammazione, abbiamo testato dei farmaci infiammatori in grado di spegnere i sintomi negli organi interessati. In particolare, stiamo per pubblicare un articolo in cui evidenziamo l’efficacia antinfiammatoria di un preparato già utilizzato per il diabete e lo scompenso cardiaco. I risultati sono buoni. Ma questo medicinale servirebbe solo quale terapia sintomatica, non eliminerebbe il problema.

L'Università della Campania “Vanvitelli” - www.raffaeleesposito.it
La seconda opzione eradicherebbe il problema?
Ce lo auguriamo e ci teniamo molto. Stiamo sperimentando in modelli animali una terapia in grado di annientare la plastica dal corpo umano. Una proceduta a quanto pare possibile perché in natura esiste un batterio, chiamato Ideonella sakaiensis, trovato in una discarica di plastica in Giappone, ma soprattutto nella cosiddetta “isola di plastica”, nell’Oceano Pacifico, il grande accumulo di rifiuti galleggiante. Ebbene, questo batterio si nutre di plastica, in particolare di Pet, ovvero il polietilene, uno dei materiali plastici più comuni e che sempre abbiamo riscontrato nei tessuti umani. Questo batterio agisce con due enzimi: uno attacca la plastica, l’altro la digerisce producendo energia. Abbiamo isolato questi enzimi e li stiamo testando su colture di cellule e su modelli animali contaminati con plastica, polietilene (Pet) in particolare.
Può darci qualche anticipazione?
Quella più importante è che l’azione degli enzimi non sembra danneggiare in alcun modo le nostre cellule. È un dato estremamente importante che ci spinge a nuove frontiere della ricerca, che continuiamo a condividere con atenei e istituti di rilievo nazionale e internazionale. Come l’Irccs Multimedica di Milano, per citare una delle strutture alle quali siamo più legati. Il nostro lavora, d’altra parte, ha necessità di tanti specialisti. Io sono un clinico, un internista, ho necessità di rapportarmi, come dicevo prima, con radiologi e ingegneri biomedici, ma anche con biochimici, chimici, farmacologi. Assieme, ci stiamo avvicinando a un grande risultato.
Non lo diciamo?
Sono ottimista ma anche napoletano... Ne parliamo a ricerche concluse.