venerdì 16 febbraio 2024
Con una sentenza definitiva viene condannato il comandante di una nave privata italiana che aveva soccorso 101 naufraghi e li aveva poi consegnati a una motovedetta libica
Il rimorchiatore "Asso 28"

Il rimorchiatore "Asso 28"

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La Libia è «porto non sicuro» e facilitare la riconsegna dei migranti alle autorità di Tripoli è un crimine. Ora c’è una sentenza definitiva, che avrà conseguenze sui processi e le indagini in corso, oltre che ricadute sulle scelte politiche. La Corte di cassazione ha infatti confermato la condanna per il comandante di un rimorchiatore italiano che aveva soccorso 101 migranti e li aveva poi affidati a una motovedetta libica.

Con un verdetto che senza eccezione indica la strada alla giurisprudenza, a cui dovranno conformarsi tutti i tribunali italiani, i giudici hanno bocciato il ricorso del comandante della “Asso 28”, il rimorchiatore di servizio presso alcune piattaforme petrolifere ritenendolo colpevole dei «reati di abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone», previsto dal Codice della navigazione. «Trovandosi in acque internazionali, a bordo del natante a supporto di una piattaforma petrolifera, dopo aver rilevato, in prossimità della piattaforma medesima, la presenza di un gommone con 101 migranti a bordo, consentiva il trasbordo delle persone sulla imbarcazione». Una operazione di soccorso che però si sviluppò in modo misterioso. Fu una inchiesta giornalistica di “Avvenire”, grazie alle informazioni raccolte tra diversi naviganti e alle comunicazioni radio registrate dalla nave del soccorso civile “Open Arms”, a smascherare una pratica su cui la Cassazione ha posto una parola definitiva. «L’imputato prestava immediato soccorso ai migranti, tra i quali erano presenti donne in gravidanza e minori di anni quattordici - si legge nella sentenza -, omettendo di comunicare nella immediatezza, prima di iniziare le procedure di soccorso, ai centri di coordinamento e soccorso competenti, l’avvistamento e l’avvenuta presa in carico delle persone, agendo in violazione delle procedure previste per le operazioni di soccorso». Inoltre ometteva «di identificare i migranti, di assumere le informazioni in ordine alla loro provenienza e nazionalità, sulle loro condizioni di salute, di sottoporli a visita medica, di accertare la loro volontà di chiedere asilo, nonché di accertare se i minori fossero accompagnati o soli». Ma questo è il meno. Ricevendo indicazioni via radio da un funzionario mai identificato di una azienda privata, anch’essa rimasta sconosciuta alle indagini, e dei quali il capitano non ha mai voluto rivelare l’identità, il rimorchiatore anziché dirigersi verso l’Italia prese la rotta della Libia dove «riconduceva i 101 naufraghi imbarcati, facendoli trasbordare su una motovedetta libica, procurando ad essi un danno grave, consistente nel loro respingimento collettivo, quale condotta vietata dalle convenzioni internazionali».

Si tratta di una modalità operativa che invece anche l’attuale governo italiano vorrebbe imporre alle organizzazioni umanitarie, spesso sanzionate proprio perché si rifiutano di cooperare con la cosiddetta guardia costiera libica. Per la massima corte, eseguire quest’ordine significa respingere illegalmente i migranti e costringerli a sbarcare «in un porto non sicuro», a causa dell’elevato rischio di essere «sottoposti a trattamenti inumani o degradanti nei centri di detenzione per stranieri».

A disposizione dei magistrati, oltre alle indagini della Guardia Costiera della Capitaneria di porto di Napoli, c’erano anche le registrazioni delle conversazioni radio ascoltate il 30 luglio 2018 dalla nave “Open Arms”. Vennero pubblicate da “Avvenire” (cliccare qui per ascoltare gli audio), e mostravano una serie di anomalie immediatamente acquisite dalla procura di Napoli, con una inchiesta dei magistrati Barbara Aprea e Giuseppe Tittaferrante e il coordinamento dell’allora procuratore aggiunto Raffaello Falcone. «Alla nostra richiesta di fornirci i dettagli delle posizioni in mare, ci diedero indicazioni poco chiare - aveva ricordato l’allora capomissione di Open Arms, Riccardo Gatti -. Questo per farci allontanare, ma poi abbiamo capito che era successo qualcosa di strano».

La Asso 28 è un rimorchiatore della compagnia Augusta, di supporto alle piattaforme petrolifere al largo della Libia. Sulla vicenda era intervenuta l’Eni lo stesso giorno del respingimento, smentendo di essere stata coinvolta. «La nave Asso 28 che opera per conto della società Mellitah Oil & Gas (gestita da Noc, la compagnia petrolifera statale libica di cui Eni è azionista, ndr) a supporto della piattaforma di Sabratah - spiegò il 30 luglio 2018 un portavoce dell’Eni all’Ansa - ha prestato soccorso ad un barcone con a bordo 101 migranti arrivato in prossimità della piattaforma a causa di condizioni meteo avverse». Poi aggiungeva: «L’operazione di soccorso è stata gestita interamente dalla Guardia Costiera Libica che ha imposto al comandante dell’Asso 28 di riportare i migranti in Libia». Parole che dovevano suonare come una difesa, ma che poi hanno condannato il capitano. Per avere eseguito quell’ordine la Cassazione ha confermato la condanna, aprendo la strada a una pioggia di ricorsi delle Ong, bloccate e multate ogni volta che hanno disobbedito ai libici. E soprattutto con il concreto rischio di vedere trascinati davanti ai tribunali i governi (di tutti gli schieramenti) che dal 2017 hanno rinnovato il Memorandum con la Libia e lo stesso “Piano Mattei” per la parte tra Italia e Libia.

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