
Il referendum sulla cittadinanza va visto con gli occhi dei bambini stranieri nati e cresciuti nel nostro Paese. «È in gioco il loro futuro» ripete Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children Italia, una delle realtà protagoniste della mobilitazione in corso dentro la società civile in vista della consultazione dell’8 e 9 giugno. «La legge 91 del 1992 è ormai datata ed è stata scritta per un mondo che non è quello di oggi. I nostri ragazzi sanno benissimo che un eventuale successo dei sì influirà positivamente sul loro futuro e su quello delle loro famiglie».
Perché è necessario partire dal punto di vista dei minori?
Perché è di loro innanzitutto che stiamo parlando. Ci sono più di 900mila bambini iscritti nel nostro sistema scolastico che non sono italiani: rappresentano l’11% del totale. Di essi, il 65% è nato in Italia. Sono italiani di fatto, ma non di diritto, come diciamo spesso.
Quali limitazioni subiscono?
Faccio alcuni esempi concreti: vivono in una situazione di continua precarietà, dovendo perdere giorni interi di scuola per rinnovare il permesso di soggiorno insieme ai propri genitori, non hanno un passaporto italiano e se la loro classe va in gita devono chiedere un visto. Non possono accedere a borse di studio, fare l’Erasmus, una volta maggiorenni non possono ovviamente votare. Pensiamo che la proposta referendaria, che non è esattamente la nostra, meriti però di essere sostenuta perché va nella giusta direzione: quella di agevolare i percorsi di inserimento di questi ragazzi nella nostra società.
Cosa succede nel resto d’Europa?
I tempi per la concessione della cittadinanza nei principali Paesi europei sono decisamente più bassi rispetto a quel che accade da noi. L’eventuale esito positivo del referendum ci porterebbe ad avere una legge, in tema di naturalizzazioni, simile a quelle in vigore in Francia, Germania e Svezia. Il nodo non è rappresentato solo dai dieci anni di residenza regolare previsti oggi. Dopo aver aspettato tutto questo tempo, infatti, gli iter burocratici necessari per diventare italiani richiedono altri tre, quattro anni. Questo vale per i cittadini maggiorenni. Per i minorenni è addirittura peggio, visto che non hanno modo di acquisire autonomamente la cittadinanza italiana, essendo legati al destino e allo status dei loro genitori.
Che conseguenze ha tutto questo?
Sono le statistiche a parlare: il 58% dei minori senza cittadinanza immagina un futuro lontano dall’Italia, un valore che scende al 34% per i coetanei italiani. Lo stesso discorso vale per il titolo di studio: le ambizioni di conseguire una laurea sono maggiori per chi è italiano dalla nascita. Significa che la cittadinanza genera inclusione, viceversa il rischio di marginalità e isolamento aumenta. La cittadinanza è un diritto, non un premio. Dobbiamo consentire a centinaia di migliaia di ragazzi di immaginarsi un futuro nel nostro Paese.
A tre settimane dal voto, la campagna elettorale per i referendum pare mobilitare molto i più giovani, mentre la politica, in particolare i partiti di governo, sembra distante. Perché?
Più che a una campagna elettorale di tipo politico, in senso stretto, penso stia andando in scena una campagna che definirei civile, in cui saranno le persone a fare la differenza. Se ci pensiamo bene, è la stessa sorprendente dinamica che ha portato alla presentazione del quesito referendario. È nato tutto in sordina, poi l’impegno delle reti delle seconde e terze generazioni, con cui lavoriamo da anni, e il coinvolgimento di testimonial, influencer e cantanti ha fatto la differenza. A chi vorrebbe un dibattito animato dalle solite, tante paure di quest’epoca e dalla scarsa conoscenza dei temi, noi vorremmo rispondere dicendo che siamo di fronte a un’occasione storica in un Paese che negli ultimi 10-15 anni ha parlato tanto del tema nei palazzi della politica, senza mai approdare a nulla. Per questo ci auguriamo una partecipazione importante al referendum: abbiamo bisogno che le nuove generazioni si sentano di nuovo protagoniste.