mercoledì 7 marzo 2018
Colloqui, bombe, armistizi, orrori: è un anno cruciale per la guerra nel Sudest asiatico Paolo VI: «Si vada oltre la tregua»
Foto simbolo: 8 giugno 1972, Kim Phúc fugge da un villaggio con altri bambini (Nick Út)

Foto simbolo: 8 giugno 1972, Kim Phúc fugge da un villaggio con altri bambini (Nick Út)

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Un pallido squillo di pace, un rombo di guerra. La fine del 1972 e l’inizio del 1973 sono una doccia scozzese per chi spera nella pace. I colloqui a Parigi vanno bene, no male, anzi benissimo, no un disastro, ci siamo quasi... I contendenti sembra cerchino di arrivare al fischio finale di otto anni di guerra sulle posizioni più favorevoli. I vietcong intensificano gli attacchi; gli americani mai avevano bombardato Hanoi in modo tanto massiccio (alla fine, avranno riversato sulla capitale del Nord più bombe dei nazisti su Londra). All’Angelus del primo dell’anno (Avvenire del 2 gennaio) Paolo VI invia «un pensiero particolarmente affettuoso alle carissime popolazioni del Vietnam». Il 9 gennaio un commento non firmato spiega quale sia la chiave per spalancare la pace: «Entrambe (le parti) devono rinunciare a ottenere lo scopo per cui hanno combattuto: entrambe devono accontentarsi di una ragionevole ma sempre aleatoria possibilità di conseguirlo in seguito». Aleatoria... Allora in molti temevano come potesse finire, e come finì il 30 aprile 1975 con la caduta di Saigon.

Ed ecco la doccia scozzese: «Clima di persistente pessimismo» (10 gennaio), «Kissinger e Le Duc To: sorrisi un po’ forzati» (11 gennaio), segretario di Stato americano e capo negoziatore vitenamita, entrambi insigniti del Nobel per la pace in quello stesso anno (ma Le Duc To lo rifiutò); «Nixon: stop ai raid sul Nord Vietnam» (16 gennaio), «L’accordo è fatto? Sarebbe già stato siglato ieri mattina» (24 gennaio), e infine «Il mondo esulta per la pace» (25 gennaio), con ben cinque pagine monografiche; a pagina 2: «Finalmente la tragedia è finita». In prima ecco Paolo VI che parlando ai rappresentanti della stampa estera avverte: «L’armistizio è una tregua d’armi. Bisogna che si evolva e si trasformi in vera pace».

Avvenire esulta ma tiene i piedi per terra. Non fa il tifo per nessuno e, nel commento non firmato, lancia il suo monito a entrambe le parti: «Un grave ammonimento sale da quelle terre lontane – ma lontane soltanto all’apparenza, perché nessuno che abbia un animo umano potrà dimenticare le immagini consegnate alla nostra storia dalla guerra del Vietnam –: a riporre i valori e l’onore in un terreno diverso dagli orgogli di superpotenza o di progresso tecnico, di monopoli ideologici e di tentazioni di egemonia del potere. Altrimenti non c’è salvezza».

Enzo Ferraiuolo racconta la storia della martoriata Indocina dal 1873 in poi e ricorda il «pauroso bilancio di oltre un milione e mezzo di morti». Neanche Massimo Ranghieri riesce a celare i dubbi di una pace fragilissima: «La pace è alle porte. Facciamo che sia un momento di gioia per tutti: il punto di partenza verso nuovi traguardi e non il punto di avvio di altri timori e sospetti». E il 27 il cardinale Giovanni Colombo invita alla solidarietà: «Non possiamo come cristiani restare estranei a tanta sofferenza. Prepariamoci al soccorso con generosità fraterna».

Infatti. Il 30 gennaio la prima pagina disillude: «Ma si continua a combattere». Tutto era già chiaro, come si legge a pagina 3: «La pace non riesce ancora a imporsi in Indocina. Una lunga guerra civile si teme nel Viet». La doccia continua, perfida. Il 2 febbraio sembra che la situazione sia migliorata: «Comincia a funzionare il meccanismo degli accordi di tregua. Vietnam: si rafforza la pace».

E il giorno dopo ci pensa Ranghieri («La pace da scoprire») a fare chiarezza, e in parte a disilludere: «È un momento di estrema confusione per il Vietnam, un Paese non abituato alla pace, che per anni ha vissuto soltanto in termini di violenza e di ingiustizia: quattordici milioni di tonnellate di bombe e di munizioni americane, oltre cinquantamila militari americani uccisi; altri 572 prigionieri e 1.236 dispersi; un milione e seicentomila morti tra nord e sudvietnamiti, città e paesi distrutti, linee di comunicazione devastate. Milioni di esseri umani traumatizzati da un’esistenza che non ha mai conosciuto pause di serenità e ai quali oggi viene chiesto di convertirsi alla pace, di capirne il significato; e anche di rivivere in una cultura e in una tradizione che anni di guerre e di colonizzazione hanno quasi irrimediabilmente corrotto»:

Allora nessuno stupore a leggere, il 24 marzo: «Il cammino verso la pace nel Vietnam appare più difficile di quanto si prevedesse». La Cambogia sprofonda: «I civili fuggono. Phnom Penh crolla» (3 agosto). E il 12 dicembre: «Non c’è tregua in Indocina. Aspre battaglie nel Mekong».

Il Sudest asiatico riaffiora sulle pagine di Avvenire per tutto il 1973. Dopo ogni timida buona nuova, come la firma del «nuovo accordo» (14 giugno), segue una cattiva nuova. E il resto del giornale? Pier Giorgio Liverani firma un lungo reportage dalla Cina in più puntate; don Giorgio Basadonna è presente con i suoi commenti e la rubrica "Il sestante"; e a Liverani tocca occuparsi del libercolo Il sesso in confessionale, col finto penitente armato di registratore. Chi ci ha riprovato dopo non ha inventato niente.

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