venerdì 10 dicembre 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Dunque di quel gruppo di prigionieri nel Sinai si sanno ormai molte cose. Si sa, riferiscono il prete e le organizzazioni umanitarie che testardamente ne inseguono i destini, in quale luogo del deserto sono; si sa chi sono i trafficanti che li tengono in catene, e ne hanno già ammazzati sei. Profughi e migranti – tra cui donne incinte e bambini – bloccati e incarcerati in Libia, poi fuggiti e risospinti verso l’ultima speranza, la frontiera di Israele, prima di cadere nelle mani dei predoni. E mentre si sa tutto questo, quelli là restano prigionieri.Allora sorge un dubbio. Sgradevole, forse non oggettivamente dimostrabile, tuttavia affiora. Che, cioè, queste bande che rastrellano disperati alle spalle della Libia siano, certo, banditi, pirati, capitribù senza più legge né morale; e tuttavia che la loro attività non sia combattuta con tutta l’efficacia di cui, ne siamo sicuri, le polizie di quella regione sono, all’occorrenza, capaci. Il dubbio, inoltre, che quella barriera nei deserti, mobile ma pronta e rapace a cogliere il passaggio di nuove vittime, in fondo sia tacitamente funzionale agli interessi di molti. Dei Paesi da cui profughi e migranti fuggono, come deterrente ad avventurarsi in un ancora più incerto destino. Di quelli che si affacciano dall’Africa sul Mediterraneo, e vogliono arginare la pressione sui loro confini. E anche nostra, dei Paesi di primo approdo dell’onda; nonché del resto di una Europa poco incline a farsi carico dell’onere di migranti, non pochi dei quali hanno diritto, secondo tutte le convenzioni, all’asilo.Anche la sostanziale indifferenza con cui giornali e tv assistono a questa odissea aumenta il dubbio. Si scende giustamente in piazza per Sakineh, e quei sei già ammazzati come cani dai trafficanti? E quei 250, e gli altri, come schiavi nell’anno 2010, alle stesse latitudini in cui noi europei cerchiamo il sole, in inverno? Che cosa manca al dramma dei profughi del Sinai, che cosa non è appealing secondo i nostri canoni mediatici? Forse il non vedere, non avere immagini di quell’angolo di deserto?Ma il dubbio è anche più radicale. Il dubbio che quelle masse, ai nostri occhi indefinite, in fuga dalla guerra o dalla miseria, agli europei, agli italiani non interessino. Che non ci appaiono del tutto uomini, ma numeri, grandi numeri che premono per sedersi alla nostra tavola, forse non imbandita, ma a cui pure si mangia. Pelli scure, lingue incomprensibili, bocche affamate: non abbiamo voglia di ascoltare le loro oscure odissee. Il Mediterraneo come una diga, come un argine al di sotto del quale sobbolle un altro mondo; le convenzioni, i diritti dell’uomo che tanto amiamo ripetere? Parole vuote, lì sotto. Non sappiamo, e non vogliamo sapere; in tempi poi di quasi, forse, elezioni, a chi porterebbe voti sostenere la causa di un manipolo di profughi, in un’Italia già dell’immigrazione insofferente?Allora, forse, quelle bande predone nel Sinai svolgono una primitiva ma efficace funzione di mantenimento di equilibri. Scoraggiano i più audaci o disperati, aiutano le polizie locali in un’azione di deterrenza tanto più forte quanto clandestina; bilanciano, con la loro eco di paura e di morte, le promesse che il Terzo Mondo vede nelle immagini delle tv occidentali. Sopra la diga, da noi, ci si può compiacere che il flusso di «clandestini» sia calato. L’Europa può evitare di affrontare organicamente la questione di chi irregolarmente fugge da persecuzione e guerra.Elogio del predone: tiene sotto controllo una pressione altrimenti difficilmente arginabile. Mantiene una sorta di ecosistema. Con mezzi barbarici. Che però non vediamo, e quindi possiamo quasi ignorare. Possiamo non pensare a quei prigionieri scacciati e braccati. A quelle donne, tra loro, con un bambino nel ventre. Che aspetta di nascere, ultimo degli ultimi; come quell’altro, ricordate, che nacque, quasi da quelle stesse parti, due millenni fa, a Natale.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: