martedì 27 settembre 2022
Intervista al presidente di Ipsos: il rapporto con la politica non riguarda più il bene comune, ma il bisogno immediato. E le maggioranze vanno e vengono velocemente
Nando Pagnoncelli, ricercatore sociale e presidente di Ipsos

Nando Pagnoncelli, ricercatore sociale e presidente di Ipsos - Fotogramma

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Un’altra astensione da record e un altro ribaltamento dei consensi. Il divorzio tra l’italiano e la politica si è ormai consumato?​
La lettera della Cei e i messaggi del Papa – ci risponde Nando Pagnoncelli, ricercatore sociale e presidente di Ipsos – hanno inquadrato perfettamente il problema: il rapporto con la politica è figlio dello scisma tra "io" e "noi", della crescente asimmetria, largamente diffusa, tra diritti e doveri. Non crediamo più in qualcosa né in qualcuno che trascenda l’immediato bisogno personale e alla politica chiediamo di rispondere a quel bisogno. Fatalmente, la politica non ce la fa e di volta in volta genera ondate di scontenti che travolgono la maggioranza in carica.

Il bene comune non interessa più?
Quest’atteggiamento, che non riguarda solo i cittadini ma anche le realtà associative, come i corpi intermedi che spesso hanno ormai un rapporto strumentale con la politica, dipende da una asimmetria tra la dimensione individuale e quella collettiva che falsa la valutazione della politica: se ci interessasse il bene comune, i nostri parametri valutativi non sarebbero curvati sul bilancio tra ciò che mi aspettavo dalla politica e quello che è migliorato nella mia vita.

Il tramonto del bene comune non implica necessariamente questa volatilità del consenso.
Invece sì, perché la politica non riesce a soddisfare tutti i bisogni personali e rifugiandoci nella dimensione individuale ci ritroviamo perennemente insoddisfatti e ci sentiamo sempre in credito verso la politica e verso gli altri, il che ci impedisce di riconoscerci in un bene comune. Se rileggiamo al ricerca fatta in maggio per il festival dell’economia di Torino, scopriamo che la stragrande maggioranza dei cittadini si sente titolare di un merito non riconosciuto e lo esprime in modo rivendicativo: il 79% delle persone intervistate si ritenevano più brave o molto più brave degli altri, che fossero lavoratori, pensionati, casalinghe, studenti o disoccupati. O riduciamo questa frattura tra cittadino e collettività o ci rassegniamo ad astensionismo e mobilità elettorale.

Una volta si diceva che per superare questa stagione di individualismi serviva una guerra. Ora, la guerra (al Covid) l’abbiamo fatta, ma non è cambiato nulla.
Non è esatto. Se prendiamo la prima parte del 2020 vi è stata una reazione positiva dalla stragrande maggioranza degli italiani, sottolineata dal cardinal Zuppi in una intervista quando parlò dell’aumento del senso di interdipendenza tra i cittadini. Più concordia e coesione, tanta consapevolezza che soltanto uniti si sarebbe usciti dall’emergenza, un aumento di fiducia nelle istituzioni e di "delega" alle medesime dopo un periodo di disintermediazione, più valore alle competenze... In quei mesi nessuna critica passò, i particolarismi furono accantonati. Poi, però riemersero ed anzi crebbero le diseguaglianze sociali, consegnandoci un Paese ancor più in difficoltà nel rimettere al centro dell’attenzione il bene comune.

Perché quegli stessi italiani che applaudivano Draghi hanno votato chi lo ha mandato a casa?
Questo voto è contraddistinto da molte contraddizioni. Draghi, dalle dimissioni in poi, ha aumentato il proprio gradimento di otto punti e al contempo ha vinto il partito che era all’opposizione e i cinque stelle, responsabili (insieme ad altri) della fine del governo Draghi, hanno avuto un ottimo risultato. Pensi che tra gli elettori FdI l’indice di gradimento del premier è molto alto...

Come spiega queste contraddizioni?
Siamo un Paese – ce lo dicono le serie storiche dei risultati elettorali di trent’anni – che attraversa fasi di innamoramento e disaffezione. Siamo l’unico Paese occidentale in cui le maggioranze escono sempre sconfitte dalle elezioni successive. Le pare normale che una forza politica come il M5s stravinca nel 2018 con il 32,7% e quindici mesi dopo perda 6,5 milioni di elettori scendendo al 17,1%, e la Lega, raddoppiando il consenso avuto alle politiche, trionfi alle Europee con il 34% e ieri sia crollato sotto il 9%? Difficile spiegarlo.

Si può dire che ci innamoriamo ma non sappiamo amare?
Infatti l’amore non può essere predatorio.

In realtà, neanche l’interesse ci tiene uniti: non si pensava forse che il Pnrr avrebbe portato anche una stabilità politica?
Il Pnrr dovrebbe farci guardare agli interessi generali del Paese e al futuro, ma l’elettorato – e la politica di conseguenza – da tempo è vittima di una sorta di presentismo, non ha il coraggio di guardare al futuro sentendosi responsabile della sua costruzione. In passato era diverso, nel dopoguerra Dc, Psi e Pci fecero parte dello stesso governo, elaborarono la nostra Carta Costituzionale, collaborarono al piano Marshall, posero le basi per il boom economico, anche se avevano idee diversissime. Fu un vero e proprio patto sociale, caratterizzato dalla costante ricerca di compromessi alti, guidata dall’obiettivo di garantire una crescita sociale ed economica all’Italia. Ora prevalgono le convenienze personali, spesso ammantate di valori.

In questo scenario, l’elettore cattolico come vota?
Da tempo il comportamento di voto dei cattolici va di pari passo con l’orientamento politico della maggioranza italiani: nel 2018 il più votato era il M5s tra chi andava a Messa tutte le domeniche. Nel 2019 il primo partito votato dai cattolici praticanti era la Lega. La fede come la politica è un frammento di identità che non comunica con gli altri. Come diceva Bodei ognuno ha una identità multipla e malleabile, manca una visione unica e coerente di se stessi.

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