giovedì 3 marzo 2022
Elena, 23 anni e 35 chili, racconta il baratro in cui è precipitata e dal quale sta, faticosamente, cercando di riemergere
Elena nel letto dell'ospedale

Elena nel letto dell'ospedale

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«Ai ragazzi che sono come me urlo: non aspettate di toccare il fondo perché il fondo non arriva, non l’ho toccato nemmeno io. Il fondo è la morte». Elena Sommaruga, 23 anni, occhi azzurrissimi, 1 metro e 76 di altezza, pesa 35 chili. Un buon traguardo, visto che a luglio 2020 ne pesava 30 e le avevano dato due giorni di vita, «invece sono ancora qui e ho fatto passi da gigante, prossimo obiettivo è pesare 37, è dura ma posso farcela. Obiettivo finale 56 chili, ne mancano 21… ». Arriva all’appuntamento su due gambe da fenicottero, leggera come una piuma e fragile come un cristallo. Ma anche questa è una vittoria, «un anno e mezzo fa ero sulla sedia a rotelle, non riuscivo a muovere nessuna parte del corpo, ad aprire gli occhi, a ricordare le cose più normali, a tenere in mano un cellulare per parlare con i pochi amici che non erano spariti…». Si chiama anoressia ed è un orco subdolo, che divora prima la mente e poi il corpo, lavorandosi il cervello al punto che la sua vittima diventa capace di cose incredibili: «Dopo 8 anni così, so vomitare a comando, non occorrono due dita in gola, mi basta volerlo», sorride in un misto di orgoglio e pena.
Ma se Elena ci ha chiesto di raccontarsi è perché i suoi primi 5 sudatissimi chili di rinascita le bastano per voler aiutare i malati come lei e rivolgere il suo grido di sdegno «alla politica, ai media, alla sanità» affinché quello che è successo a lei non accada agli altri. Ed ecco la denuncia: «Nonostante l’anoressia sia una piaga in crescita esponenziale, nei reparti per disturbi alimentari degli ospedali più grandi di Milano i posti letto sono cinque. Per questo, quando pesavo 30 chili e le ossa mi si frantumavano, mi hanno ricoverata mesi in medicina generale, in camera con uomini e anziani affetti da tutt’altre patologie». Il corpo era così ossuto che il materasso lo feriva come fosse di marmo «ma ci è voluto un mese e mezzo per ottenere quello antidecubito», semplicemente perché il reparto era quello sbagliato. Nessuna visita psichiatrica, solo il monitor cardiaco che suonava di continuo «perché con 28 battiti al minuto sei più sotto la soglia vitale che sopra», e per nutrirla c’era un sondino naso-gastrico, come se il problema fosse allo stomaco e non nella mente… «Mi aggiustavano le ossa e curavano le infezioni, poi mi mandavano a casa». Nessun ascolto del suo “cuore” vero (quello dei sentimenti, non il muscolo), e alla fine nessun ospedale la ricoverava più, «troppo magra per essere salvata, troppo grave per essere curata, questo dicevano ai miei genitori».
È un buco nero quello in cui cadono i familiari, che non sanno più dove sbattere la testa. Anche i genitori di Elena hanno bussato a mille porte e supplicato ma per questi ragazzi mancano le strutture. «Perciò ora voglio combattere – spiega lei, che intanto è passata dalla sedia a rotelle ad iscriversi in università –. Non è credibile che una ragazza venga lasciata morire solo perché non ci sono i letti e nessuno vuole curare i gravissimi come me».
La svolta nella sua vita ha il volto di un uomo che ha saputo ascoltarla ma anche tenerle testa. Uno psichiatra, finalmente, «l’unico in tutta Italia che non mi abbia rifiutata», racconta Elena con la gratitudine che le accende lo sguardo. Si chiama Leonardo Mendolicchio e oggi dirige il reparto disturbi alimentari di Piancavallo (vedi intervista a parte). Non le infila un sondino per nutrire a forza un corpo comunque capace di annientare il cibo, ma le dimostra di conoscere i meccanismi di autodistruzione che si porta dentro. E la ricovera per un anno. «Da una parte non volevo, dall’altra disperatamente sì». Non le dà tregua, ma in cambio le dà fiducia, ed Elena per la prima volta si affida. «Le terapie erano severe, ora lo supplicavo ora lo combattevo, era una sfida continua ma lui sapeva sempre cosa dire e come ascoltarmi, mi ha salvato la vita». Mostra le foto dei recenti successi, le stesse che posta su Instragram dove 3.000 contatti la sostengono ogni giorno o invece – i malati come lei – la seguono per carpirne il coraggio: c’è Elena che fa la ruota sulla spiaggia, Elena sollevata sulla sedia a rotelle che usa come dondolo, Elena che incrocia le sue gambe di fenicottero, persino Elena in bici. Le “altre” foto, della Elena di prima, sono quelle che pubblica invece come monito, uno scheletro coperto di pelle e un corpo senz’anima: «Se io le avessi viste anni fa, quando ho iniziato quella dieta sconsiderata, mi sarei fermata prima», assicura. Eppure – le obiettiamo – la persona anoressica gode della magrezza, la vede bella… «C’è scheletro e scheletro, quello che ero io un anno fa spaventerebbe chiunque, a nessuno piace essere attaccato a tubi, fasciato dal pannolone, bendato sulle piaghe, e mostrare queste cose a chi è ancora all’inizio della malattia può salvare molte vite».
E allora eccolo il suo secondo appello: smetterla di sottovalutare il problema e di considerarlo un capriccio, «è un male oscuro che va riconosciuto ai primi sintomi, prima che diventi irreversibile». I suoi primi sintomi in fondo erano già palesi all’asilo, quando era la bimba che mangiava meno di tutti. Ma è a 15 anni che scomparire è diventato il chiodo fisso: «Volevo attirare l’attenzione dei miei genitori – spiega soppesando ogni parola –, se dimagrisco si accorgeranno di me. E poi ovunque ero sempre la più alta, anche la squadra di ginnastica artistica mi aveva esclusa per l’altezza, così dovevo diventare piccola, sempre più piccola, uniformarmi…».
Oggi la guarigione è ancora un’ipotesi e va guadagnata con sudore e sangue. «Le notti sono lunghissime perché noi siamo persone iperattive, io cammino ore, sfianco il mio cane, poi di giorno crollo grazie ai sonniferi». Il peggio è stato durante il lockdown, quando faceva «quelle code interminabili davanti ai supermarket e compravo centinaia di euro di alimenti, che mangiavo la notte per poi vomitare tutto… alla fine mi riempivo di lassativi anche se dentro non avevo più nulla, per ripulire il corpo da ogni traccia di cibo». La cosa che si teme di più infatti è il non avere niente da fare, «questo veramente ci uccide», così Elena la scorsa estate ha lavorato da un fruttivendolo: «È stato meraviglioso, io ho bisogno di cose semplici, di contatti umani, di vedere persone. Voglio di nuovo un lavoro così, la psicologa che mi segue mi ha promesso che a 37 chili me lo trova».
Sembra gelida, ma trabocca di voglia di amare. «Cosa mi fa stare veramente bene? Vedere che qualcuno sta meglio grazie a un buon gesto. Ogni mattina faccio colazione al bar (il croissant non mi fa più paura!) e fuori c’è sempre un ragazzo africano, vedere come sorride perché lo invito dentro a mangiare è meraviglioso: io che ho sprecato tanto cibo posso darne un po’ a lui, io che ho creato tanto gelo lo sto riscaldando perché muore di freddo…».
Un po’ quello che oggi madre e padre fanno con lei, quando la sera dopo cena vorrebbe comandare al suo corpo di rigettare tutto, ma ora che li ha complici chiede aiuto «e loro si mettono sul divano accanto a me, così ce la faccio». La malattia li ha fatti ritrovare, «sono rientrata nell’utero materno», dice di sua madre, medico fisiatra. E suo padre, ingegnere, «tanto buono ma poco affettuoso quando ero bambina», oggi è il primo al quale mostra i progressi, papà, guarda, ho mangiato il gelato, papà, guarda, cammino… «È lui che nei mesi di ospedale mi portava in braccio in bagno, mi cambiava, la notte dormiva per terra di fianco al letto e mi controllava le pulsazioni per paura che morissi». Ci si ammala tutti, in famiglia, e si cresce tutti.
Sull’anoressia sfata leggende e nelle sue parole ciò che a noi è incomprensibile diventa logico: «Ad esempio non è vero che ci vediamo belle, io ammiro le ragazze in carne, vedo che il loro corpo è bello. In che senso allora sono innamorata del mio corpo? Io sono innamorata della sensazione di non pesare, di non avere niente addosso, è come se mi liberassi da tutti i pesi del mondo. Pensi a Peter Pan, non vuole diventare grande, vuole solo volare». È qualcosa che è cresciuto insieme a lei da sempre e ancora è là dentro, pronto ogni istante a tentarla, quando i pensieri possono essere belli o invece brutti. «Quelli belli sono io che voglio una vita, voglio tornare una ragazza normale, voglio viaggiare, studiare, riuscire a ricordarmi cosa ho sognato la notte, provare un monopattino elettrico, fare gli sport in cui da bambina eccellevo, ricordarmi che ho un appuntamento con una giornalista (la prima volta si era dimenticata, ndr), insomma io voglio vivere», dice tutto d’un fiato. Ma i brutti lo sono davvero, «voglio scomparire, ma-che-sto-facendo-sto-ingrassando, e se ingrasso la mente funzionerà di nuovo, e allora sentirò di nuovo il dolore, le delusioni… A 30 chili ero così morta che il dolore non lo sentivo, con 28 battiti al minuto non c’è il pensiero, quindi non soffri. L’apatia ti solleva dal male di vivere e per questo la cerchi massacrando il tuo corpo. Ecco perché stare meglio ti spaventa: la mente va velocissima, quando assume gli zuccheri…».
Chiarissimo e feroce. L’anoressia come la droga, ti ruba il sentimento, uno zombie non soffre. Ancora più chiaro: «Hai una doppia personalità, i tuoi occhi vedono una cosa, la tua mente ti dice il contrario, a chi credi? E da tutto questo volevano guarirmi con un sondino nel naso…». Sa che se prima le avevano dato lo 0% di possibilità di vivere ora è al 30%, ma al 100% è la sua volontà di combattere per una causa che riguarda migliaia di ragazzi come lei.
Ci lascia con due appelli: «A quelli come me, non invidiate chi è più magro di voi perché lì non c’è niente da invidiare, seguite gli esempi positivi: c’è una vita là fuori che vale la pena di essere vissuta!». E alla politica «non lasciateci morire. Io ero troppo magra per essere salvata. Non deve capitare, noi ragazzi siamo il vostro futuro».

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