martedì 1 febbraio 2022
A cinque anni dall'accordo Italia-Libia emergono nuovi misteri nell'intesa. Dopo l'arrivo in gran segreto di una delegazione libica in Italia cominciano respingimenti mai dichiarati.
Bija a bordo della nave di proprietà italiana durante il respingimento

Bija a bordo della nave di proprietà italiana durante il respingimento

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È uno dei segreti meglio custoditi della storia recente. Gli accordi Italia-Libia, sigillati dal Memorandum triennale d’intesa del 2 febbraio 2017 e rinnovato nel 2020, contengono dettagli operativi che nessuno ancora conosce. Dal 4 ottobre 2019, quando Avvenire rivelò la presenza in Italia di una delegazione libica che vedeva tra gli altri il supertrafficante guardacoste Abdurahman al-Milad detto Bija, i governi che si sono succeduti non hanno mai voluto rispondere alle nostre domande. E anche una decina di interrogazioni parlamentari sono rimaste inevase. Era l’inizio di maggio 2017 quando il gruppo di libici partecipò a una serie di incontri riservati in Sicilia e a Roma. Ad oggi non conosciamo, tra l’altro, l’esatto programma di quella visita. Nel frattempo sono emerse foto di Bija al pianoforte di un circolo dell’Esercito italiano a Roma, nel Comando centrale della Guardia costiera, in gita nel porto di Catania e in un albergo dove mostra gli acquisti appena compiuti in un giro di shopping.Al rientro in Libia della delegazione, le partenze dei migranti dal Paese precipitarono da circa 25mila al mese a poco più di 3mila. E oggi abbiamo un riscontro in più: al rientro dai colloqui in Italia, per i respingimenti dichiarati illegali dalle Nazioni Unite, Bija ha impiegato anche navi di proprietà italiana. Episodi rimasti – almeno in parte – nascosti alle cronache. A rivelarlo è lo stesso Bija, forse tradito da uno dei suoi impeti di vanità. In una sezione non particolarmente pubblicizzata della sua pagina facebook, il comandante Abdurahman al-Milad, ancora destinatario di sanzioni Onu e di alert dell'Interpol insieme ad altri protagonisti del "Libyagate" investigato da IrpiMedia e Avvenire, nell’autunno del 2020 aveva archiviato una serie di filmati autocelebrativi. In uno dei video si mostra a bordo della motovedetta Talil, per l’occasione equipaggiata con mitragliatori e cannoncini, mentre raggiunge un gommone di migranti terrorizzati dal rischio di naufragio e dalla certezza di un ritorno alle torture. Ma in un cambio di inquadratura sempre Bija riappare a bordo di una seconda nave. Sembra un rimorchiatore, su cui vengono trasbordati i migranti poi condotti in Libia.

Chi ha effettuato il montaggio, non sappiamo se consapevolmente o meno, ha lasciato che per una frazione di secondo apparisse il nome del rimorchiatore. Il fermo immagine non lascia dubbi: si chiama "Saiph" ed è registrata al porto de La Valetta. E qui comincia un altro giallo tra Italia, Libia e Malta. Perché ricercando il nome del vascello e la sua storia armatoriale, si scopre che è sempre stato di proprietà italiana, stabilmente adoperato come nave di servizio delle piattaforme petrolifere. Fino al dicembre 2019 era stata iscritta nel naviglio con bandiera maltese, poi in Italia. La società armatrice dalla Saiph fino al 2014 apparteneva alla Cafima Spa, ossia il gruppo a cui fa capo tutt’oggi Augusta Offshore Spa, l’armatrice della Asso Ventotto che il 13 ottobre 2021 ha visto il suo comandante condannato dal Tribunale di Napoli per aver affidato 101 migranti alla Guardia costiera libica. Asgi (l’associazione dei giuristi esperti in diritto delle migrazioni) e Amnesty International, lo scorso febbraio hanno avviato un’azione civile anche contro un altro rimorchiatore del gruppo, Asso Ventinove, protagonista del respingimento di cinque eritrei nel luglio 2018. Il rimorchiatore Asso Ventinove, va specificato, in altre numerose occasioni ha fatto sbarcare i migranti in Italia, così come ordinato da chi coordinava le operazioni di soccorso.



La presenza della Saiph accanto alla motovedetta libica, a quanto è stato possibile ricostruire, risalirebbe alla fine di maggio 2017, pochi giorni dopo il viaggio segreto di Bija in Italia. Nel video si vede al-Milad a bordo della nave e dietro di lui il profilo dei migranti accovacciati sul ponte esterno. «Venerdì 25 maggio 2017 – si legge in un cartello all’interno del video – sono stati soccorsi 506 immigrati clandestini. 276 immigrati sono stati trasferiti al porto di Zawijah e 230 sono stati trasferiti al terminal petrolifero di Mellitah. Nelle prime ore del sabato sono stati soccorsi 478 immigrati clandestini a nord di Sabratha, a 16 miglia nautiche di distanza e sono stati trasferiti al porto di Zawijah». Contattata per un commento, la Augusta Maritime Services, armatrice della Saiph, pur senza smentire che quella del filmato sia la sua nave, ha spiegato di non essere in possesso di "documenti comprovanti" l’incidente. La società ha aggiunto di aver lavorato sempre e solo con Mellitah Oil & Gas, la joint venture tra Eni e la libica Noc, fino al giugno 2021, e che "non c’è mai stata alcuna collaborazione" tra gli armatori e la Guardia costiera libica. Le cronache di fine maggio 2017 parlano di partenze molto frequenti da quel tratto di cosa: il 24 maggio, riportano le notizie dell’epoca, di fronte a Zuwara, 20 km a est di Mellitah, c’è stato un naufragio costato la vita almeno a 31 persone.
Mentre in mare si consumavano stragi e respingimenti sconosciuti, Libia e Italia programmavano i primi addestramenti dei guardacoste previsti dalla firma dell’accordo del febbraio 2017. Eppure già prima del suo arrivo in Sicilia e a Roma, Abdurhaman al-Milad era stato indicato dal Centro Alti studi del ministero della Difesa italiano (Casd), che dipende dallo Stato Maggiore della Difesa, come uno dei rais del traffico di migranti e idrocarburi. Nonostante questo ottenne un visto ufficiale per negoziare con Roma la riduzione delle partenze e la promessa di cospicui finanziamenti ai clan, attraverso donazioni del governo italiano alle municipalità libiche. Dettagli mai resi pubblici dal nostro governo ma emersi anni dopo grazie alle inchieste giornalistiche. Eppure, proprio mentre la delegazione libica quell’anno frequentava i Palazzi della Penisola, un gruppo di cronisti italiani impegnati proprio in quelle inchieste veniva intercettato nelle comunicazioni e negli spostamenti.
Il testo del Memorandum riconfermato il 2 febbraio 2020 – 5 pagine e 8 articoli – ricalcava quello del 2017. L’accordo impegnava l’Italia a sostenere, a proprie spese, corsi di formazione e la fornitura di equipaggiamento per la «guardia costiera del Ministero della Difesa», definizione che sembrava escludere le altre "polizie marittime”, seppure includendo il supporto ad altri «organi e dipartimenti competenti del Ministero dell’Interno», che a sua volta guida una propria milizia navale chiama Gacs. «La Parte italiana si impegna a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della prevenzione e del contrasto all’immigrazione irregolare e delle attività di ricerca e soccorso in mare e nel deserto», si leggeva. Infine un veloce passaggio sui diritti umani: «le Parti si impegnano a sostenere le misure adottate dall’Unhcr-Acnur e dall’Oim (le agenzie umanitarie dell’Onu sul campo, ndr) nel quadro del piano d’azione per l’assistenza ai migranti in Libia e la Parte libica assumerà ogni utile iniziativa per facilitarne l’attuazione».


Tre anni dopo gli operatori Onu confermano di non avere mai avuto alcun libero accesso ai centri di detenzione, resta quasi impossibile per il personale internazionale ricevere il visto e i permessi di ingresso nei campi di prigionia ufficiali vengono rilasciati con il contagocce.
Secondo Oxfam, dalla firma dell’accordo l’Italia ha speso 962 milioni euro per bloccare i flussi migratori in Libia e finanziare le missioni navali italiane ed europee. Circa 270 milioni di euro sono stati spesi in missioni nel paese. I risultati non solo quelli assicurati al momento della firma. Solo nel 2021 su 32 mila migranti intercettati dai guardacoste libici, si ha notizia di 12 mila persone che si trovano in 27 centri di detenzione ufficiali. Di altre 20mila persone si è persa ogni traccia.
Il memorandum italiano, in questi cinque anni, ha fatto scuola. Un accordo d’intesa è stato siglato anche dal governo di Malta con la Libia. Neville Gafà, ex membro del gabinetto delle primo ministro maltese, ha tessuto i legami tra il governo dell’isola e quello di Tripoli. Ha anche fatto da garante in modo che i pescherecci privati di cui abbiamo parlato nelle puntate precedenti potessero intervenire in operazioni di salvataggio e respingimento in Libia. Perché oggi è chiaro che a riportare i migranti in Libia non sono state solo le motovedette dei guardacoste nordafricani. Anche ad altre imbarcazioni private è stato ordinato di considerare la Libia come un porto sicuro.
(4 - fine)


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