venerdì 5 agosto 2022
Fino a ieri già 47 i casi in Italia, l'anno scorso, nello stesso periodo, ce ne furono 32. Mauro Palma: serve un urgente approccio multidisciplinare, la sorveglianza fissa con basta
Carceri, altri 5 suicidi in 7 giorni. Il Garante: dobbiamo arrivare prima
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Donatella si è tolta la vita il 2 agosto, nel carcere di Verona, a 27 anni. «Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere, ma ho paura di tutto» hanno trovato scritto sul foglio lasciato vicino al fornelletto del gas acceso. La ragazza aveva problemi con la droga, era passata di comunità in comunità fino a una fuga, accompagnata da qualche furto, che le era costata la reclusione. La sua famiglia non sa spiegarsi cosa l’abbia spinta a quel gesto: sono distrutti. Non è l’ultimo caso di suicidio nelle nostre carceri, anzi. Nell’ultima settimana soltanto sono stati 5, e di chi non c’è più ignoriamo le storie: c’è stata una donna a Rebibbia, un uomo a Brescia, uno ad Ascoli Piceno, ieri un altro ad Arienzo, in Campania. C’è stato anche un tentativo di suicidio, ad Augusta: stavolta si trattava di una guardia penitenziaria. Perché le carceri italiane sono diventate un inferno per tutti, i detenuti e chi i detenuti deve controllare. Appena settimana scorsa Antigone aveva lanciato l’allarme: troppe persone (un tasso di sovraffollamento al 112%), troppo caldo, troppi problemi invisibili e irrisolti, come quelli legati allo stato di salute mentale di chi finisce in cella e che oltre a scontare una pena avrebbe diritto a cure sanitarie specifiche, spesso assenti. E poi troppa violenza ed esasperazione: perché i diritti calpestati innescano spirali di rabbia e ribellione, oppure chiudono le persone nel silenzio e nella disperazione. Come quella di Donatella, che aveva paura di tutto, oltre che di se stessa.

«Dall’inizio dell’anno fino al 5 agosto, la triste conta dei suicidi in carcere in Italia è giunta a quota 47. Lo scorso anno, nel medesimo periodo temporale, era a 32. Un aumento (+47%) che deve farci riflettere, tanto più se teniamo conto del fatto che quest’anno si contano pure una quindicina di morti per cause da accertare, all’interno delle quali è possibile che ci sia anche qualche altro suicidio. Penso ai casi di decesso per aver inalato il gas della bombola, non sempre sono modi di “sballarsi”, a volte possono essere tentativi di porre fine alla propria vita». Secondo Mauro Palma, Garante dei detenuti e delle persone private di libertà, l’aumento dei suicidi in carcere, denunciato nei giorni scorsi anche dal rapporto di Antigone, è la spia sul cruscotto di un malessere che non può e non deve essere ignorato. «So che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta già muovendosi per favorire un maggior controllo che possa cogliere elementi, sintomi o segnali indicativi di un rischio – dice Palma ad Avvenire –. Ma non può farlo da solo, perché a volte è davvero difficile “leggere” quei piccoli elementi. Comunque il Dap ha elaborato una circolare che dovrebbe essere arrivata negli istituti penitenziari fra ieri e oggi».

Cosa prevede la circolare?

Da quel che so, indica di perseguire un approccio multidisciplinare. Occorre urgenza, perché non basta la sorveglianza fissa, non è sufficiente mettere un agente penitenziario davanti a ogni cella, perché non puoi vigilare su tutto e tutti.

Cosa si può fare allora, Garante Palma?

Intanto, dietro ogni suicidio ci sono drammi esistenziali personali ed è semplicistico pensare che situazioni così si possano prevenire totalmente. Se si guarda la tipologia delle persone decedute, si vede che spesso sono o persone appena entrate e con anni da scontare a causa di una sentenza oppure anche detenuti a cui manca poco per scontare la pena…

Perché chi è appena entrato o chi sta per uscire decide di togliersi la vita?

Perché spesso il suicidio è un “prodotto” di una cultura, chiamiamola così, che fuori dal carcere tende ancora a giudicare gli ex detenuti come irredimibili, che appioppa loro lo stigma del «tanto quello è un ex carcerato, un delinquente, non può cambiare» e quindi «non lo riassumo o non lo prendo a lavorare con me». Un modo di pensare con cui ogni ex detenuto si scontra. E così, anche chi sta per uscire può essere colto dall’angoscia di doversi confrontare con una società che potrebbe respingerlo e cade in depressione, fino al suicidio.

Cosa deve cambiare nella società?

Questo modo di pensare. Finché il carcere viene percepito come un luogo che segna le persone in questo modo, un luogo di “non speranza”, finché la cultura esterna al carcere è centrata sul castigo e sullo stigma, allora determinerà per chi entra un penitenziario il senso di essere caduto in baratro e per chi sta per uscire l’ansia di non poter riavere una vita degna.

E dentro il carcere, invece? Ci sono, nella situazione attuale degli istituti, cause che possano incidere sui drammi personali, come il sovraffollamento ad esempio?

Certamente le celle piene, il caldo hanno un rilievo: tutti gli anni, in estate il numero dei suicidi ha un picco verso l’alto. Ma io non sono molto convinto che il sovraffollamento abbia un peso decisivo. Come ho detto, credo che invece pesi molto il macigno della “irredimibilità” caricato sulle spalle di chi è stato dentro e che si è accentuato non tanto nella cultura dell’amministrazione penitenziaria, che è più accorta di prima, quanto nella cultura della società. Noi dobbiamo interrogarci molto all’esterno, sui suicidi dietro le sbarre, e invece facciamo le solite quattro urla sul fatto che il carcere non funziona. Questo in buona parte è vero, ma non concordo sul fatto di attribuire al malfunzionamento del sistema detentivo la sola ragione dei suicidi. La responsabilità, in parte, è anche di noi che stiamo fuori, del modo di pensare comune.

Voi effettuate visite nei penitenziari. Oltre ai suicidi, quali sono le altre emergenze? Le violenze sui detenuti denunciate in diverse carceri in questi anni sono cessate?

In generale, attualmente in carcere il clima è molto violento, anche fra gli stessi detenuti, con episodi gravissimi come l’uccisione di un recluso a sgabellate, a Sassari. Credo che nel post-Covid sia cresciuto il tasso di aggressività, anche all’esterno. E nel carcere, il caldo e la vicinanza eccessiva fanno da amplificatore. Inoltre, ritengo che si debba anche lavorare per ridurre la circolazione sotterranea di stupefacente in carcere: ho la sensazione che ne giri ancora molto.

Come si può far scendere quel tasso di malessere e di aggressività latente?

Gli interventi possibili sarebbero molti. Uno può essere quello di favorire di più i contatti dei detenuti con le famiglie, coi loro cari, con quei legami esterni per i quali provano affetto. Perché è vero che, vedendo la famiglia, si ha il rimpianto di non essere fuori, ma cresce anche la speranza di poter tornare fra persone amate. Ecco, per ridurre il dramma dei suicidi, nel carcere bisogna far entrare la speranza, bisogna alimentarla. Indipendentemente dall’idea che si ha della pena, dovremmo fare in modo che la persona detenuta non si senta un vuoto a perdere, che percepisca di essere ancora parte della collettività.

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