venerdì 29 giugno 2012
Belletti: «L’indicatore della situazione economica equivalente non tiene conto del carico familiare». I nuovi parametri rischiano di essere un sistema che «con una mano dà e con l’altra prende. Sbagliati i criteri di valutazione di assegni familiari, indennità di accompagnamento e invalidità».
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Riforma dell’Isee, ci siamo. I lavori affidati al sottosegretario al Lavoro e alle Politiche sociali Maria Cecilia Guerra sono ormai alle battute finali. Ma attenzione, non è oro tutto ciò che luccica. Almeno per il Forum delle associazioni familiari, secondo cui l’aggiornamento dell’«Indicatore della situazione economica equivalente» potrebbe non rispondere pienamente alle esigenze di tutela nell’accesso alle prestazioni sociali agevolate delle famiglie italiane. «Diamo atto al governo Monti, di voler rendere più efficace l’Isee. Ma la proposta del sottosegretario presenta ancora dei punti non condivisibili», dice il presidente del Forum delle associazioni familiari, Francesco Belletti, che aggiunge come «l’Isee non è uno strumento neutro. Già diverse amministrazioni locali, a cominciare dal Comune di Parma (e ora in via sperimentale dal primo luglio in Regione Lombardia, ndr.), hanno infatti tentato di rendere questo strumento più equo con la famiglia e le sue esigenze». Insomma, i campi di applicazione del nuovo Isee sembrano ridotti, così come i rivisti parametri di composizione dell’indicatore non corrisponderebbero pienamente alle esigenze dei nuclei. «L’aggiunta al calcolo dell’Isee di tutte le somme percepite a titolo di sostegno», come per esempio gli assegni familiari, le indennità di accompagnamento, gli assegni di invalidità, rappresenterebbero, secondo il Forum, un metodo sbagliato, rappresentativo in realtà di un sistema sociale che «con una mano dà e si riprende il tutto con l’altra». Non solo, ci sono anche altre rimodulazioni che non convincono, che fanno apparire in negativo il saldo rispetto anche al vecchio Isee. I dubbi del Forum sono sulla «valutazione del patrimonio immobiliare con i parametri Imu e non più Ici e l’eliminazione della franchigia per la casa di abitazione». Questo aspetto infatti sarebbe «solo parzialmente bilanciato da una riduzione del valore al 75% e da una deduzione dal reddito fino ad un massimo di 7.000 euro». Infine, la “scala di equivalenza” non terrebbe adeguatamente conto del carico familiare, in modo particolare dei figli e delle situazioni di disabilità. «Per correggere queste misure che rischiano di trasformarsi in un ulteriore peso per le famiglie – dice ancora Belletti –, abbiamo trasmesso al sottosegretario un documento tecnico contenente alcune proposte correttive per rendere il nuovo Isee capace di affrontare la crisi e garantire l’equità familiare nell’accesso ai servizi, senza penalizzare le famiglie con carichi familiari importanti. Un Isee, dunque che consenta di valutare bene la situazione economica delle famiglie». E certo però, sono le conclusioni di uno studio elaborato ancora dal Forum delle associazioni familiari, che la soluzione migliore ed equa è un’altra. E cioè l’introduzione del Fattore famiglia, indicatore che espliciterebbe meglio, in maniera più “realistica” della scala Isee, le reali esigenze e più vicino per certi aspetti all’indicatore – usato come riferimento – della povertà assoluta Istat. «Utilizzare scale più penalizzanti per la famiglia – concludono al Forum – rispetto alla scala di povertà assoluta Istat, significa quantomeno dare allo strumento un significato politico negativo verso i nuclei familiari, perdendo al contempo il valore di strumento neutro e strettamente tecnico. Proporre invece la scala Fattore famiglia è quindi non solo un fatto politico, ma tecnico e di assoluto rilievo. Solo con scale tipo il Fattore famiglia si può andare verso un costo sostenibile dei servizi da parte delle famiglie, altrimenti i servizi stessi saranno via via abbandonati per soluzioni diverse, a minor impatto economico, magari a scapito della qualità. Senza contare che gli attuali servizi già operanti, se perdono di utenza, perdono di efficienza e quindi aumentano di costo per i comuni, come per esempio per i nidi. È questo che vogliamo? Speriamo proprio di no».
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