lunedì 8 aprile 2024
Due mesi dopo l’approvazione delle nuove linee di indirizzo nessuna Regione ha ratificato il documento. Mentre si discute sul ddl del governo, esce "Niente da perdere" con la storia di Sylvie
Una scena del film “Niente da perdere” di Delphine Deloget

Una scena del film “Niente da perdere” di Delphine Deloget - David Koska

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Affido familiare, il valzer delle incomprensioni. Oggi in Italia, a fronte di circa 14mila minori in affido familiare, ce ne sono 16mila circa ospiti di centri d’accoglienza, case famiglie e altre strutture ricettive. Il “circa” è doveroso perché non sappiamo il numero preciso di questi minori, come non sappiamo quello delle strutture d’accoglienza, nelle diverse tipologie. Ogni Regione ricorre a classificazioni diverse. Il ddl presentato qualche giorno fa dal governo punta a colmare questi vuoti, ma famiglie e associazioni colgono nel disegno di legge una volontà di “tutela” che, assicurano, loro già assolvono al meglio. Ecco il valzer delle incomprensioni. Alimentato indirettamente anche dalle nuove Linee di indirizzo sull’affido approvate dalla Conferenza Stato-Regioni che però, a circa due mesi dal voto, le Regioni stesse non ratificano. E ora arriva un film che riassume al meglio tutte queste incogruenze.

Sylvie è una madre single. Vive in una cittadina francese con i suoi due figli. Un ragazzo adolescente e un bambino di 10 anni. Tira avanti a fatica facendo la barista in un locale notturno. I figli a casa, affidati a sé stessi. Una sera al più piccolo viene voglia di patatine fritte. La mamma non c’è. Il fratello maggiore pensa ad altro. Versa l’olio nella friggitrice, qualcosa non funziona. Scoppia un piccolo incendio. Cucina carbonizzata. Il bambino si ustiona al torace. Niente di grave. La madre corre all’ospedale. Problema risolto. Ma intanto è scattata la denuncia a quelli che in Francia si chiamano Servizi per l’infanzia. Interviene il giudice: «Madre inaffidabile». E il piccolo finisce in una casa-famiglia. Qui comincia il calvario di Sylvie per riportare il figlio a casa. Tenta di tutto ma non ce la farà e sarà costretta, con una soluzione a sorpresa, a “fuggire” con lui nel tentativo di raggiungere la Spagna e far perdere le proprie tracce.

A parte il finale romanzesco, la storia di Sylvie (interpretata da Virginie Efira) raccontata nel film, “Niente da perdere”, scritto e diretto da Delphine Deloget, presentato venerdì sera a Roma, che sarà nelle sale a partire dal prossimo 1 maggio (Wanted Cinema), sembra la riscrittura di tanti episodi capitati in questi anni anche in Italia. Eppure, spiega la regista, non si tratta di un film contro l’affido: «Fortunatamente, molti collocamenti in affido hanno successo; molti avvengono addirittura su richiesta dei genitori. Questo film non mette in discussione la necessità dei collocamenti in sé. Ciò che mi interessava era la spirale che a volte porta ad aberrazioni amministrative e legali. I servizi sociali applicano una sentenza del tribunale, ma tali sentenze sono spesso dettate dal timore che vi siano potenziali abusi. Si tratta di una precauzione che ha i suoi vantaggi, ma che talvolta può avere anche un effetto controproducente. Nel film ciò che fa impazzire la macchina – osserva Deloget – è Sylvie che non reagisce in tempo. Lei lotta contro una decisione presa “per il suo bene” ma più fa ciò che le viene chiesto, più sprofonda. È incastrata e spinta al limite, non sa più contro chi combattere, se non contro sé stessa o contro il sistema».

Non è una storia vera, naturalmente, quella di Sylvie, ma la sintesi di tante vicende reali capitate in Francia negli ultimi anni. Storie dolorose in cui – si lascia intendere - è sempre difficile distinguere tra vittime e colpevoli, mentre la società guarda con distacco a queste vicende che causano grandi sofferenze sia ai piccoli, sia ai genitori. «Ho incontrato decine di famiglie che hanno figli in affidamento e ho ascoltato molte conversazioni registrate – prosegue Delphine Deloget – tra i genitori e i dipendenti dei servizi per l'infanzia. Ho anche parlato a lungo con avvocati che si occupano di questo tipo di casi e ho trascorso diversi giorni nell'ufficio di un giudice per bambini, dove ho scoperto la complessità dell'interazione umana, ciò mi ha permesso di superare alcune idee preconcette». In che senso? «Quando sentiamo parlare di collocamenti in affido immaginiamo il peggio: incesto, abusi, torture, ecc. Eppure, il 70-80% di tali collocamenti avviene dopo che si sono verificate quelle che i servizi sociali chiamano “difficoltà“, un termine generico che si riferisce a genitori disorientati, bambini difficili, svantaggi educativi, alloggi inadeguati, famiglie con pesanti debiti, ecc».

La regista Delphine Deloget, che ha scritto e diretto “Niente da perdere”

La regista Delphine Deloget, che ha scritto e diretto “Niente da perdere” - David Koska


Nel film emerge però anche una scarsa fiducia nei servizi pubblici per l’infanzia e nell’operato dei giudici. Le madri dei gruppi di ascolto raccontate nel film appaiono come sfiduciate, disorientate. Nessuno spiega loro quello che sta succedendo, vittime di un sistema di tutela dell’infanzia che appare inadeguato, sordo a qualsiasi istanza di equità e di comprensione umana. «Tali situazioni – osserva ancora la regista – sono tutt’altro che eccezionali, eppure a volta possono essere la causa di una spirale fuori controllo che trasforma questi difetti familiari in ferite aperte. Ogni scena nel film che coinvolge istituzioni sociali è stata ispirata da resoconti reali ottenuti direttamente da genitori o assistenti sociali».

Alla fine non ci sono né vincitori né vinti. Il film si chiude con una “soluzione aperta”. Non sappiamo, cioè, se il tentativo di fuga della madre finisca positivamente o meno. Da una parte rimane una donna quasi condannata ad agire in modo illegale ma umanamente comprensibile. Dall’altra un sistema sociale che agisce per il “supremo interesse del minore” ma lascia i genitori senza sostegno e senza risposte. «L'amore di Sylvie per i suoi figli è una parte essenziale dell'essere genitore, ma potrebbe non essere sufficiente. Viene criticata per la sua mancanza di supervisione e le sue assenze comprovate. Queste critiche non sono ingiuste di per sé, tuttavia, i genitori dicono che una volta avviato il processo, perdono il filo di ciò per cui vengono criticati: vengono accusati o di dare troppo amore ai propri figli o di privarli di esso; allo stesso modo, possono essere rimproverati di essere troppo severi o troppo permissivi». La domanda finale potrebbe essere: ma di fronte a tante contraddizioni perché non ripensare, in Francia, come in Italia, un sistema che troppo spesso non riesce a far altro che aggiungere sofferenza a sofferenza? Attendiamo risposte.



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