domenica 14 febbraio 2021
Viaggio nel paese dove è cominciato tutto, tra il 20 e il 21 febbraio del 2020. Il primo caso di Covid, la decisione di chiudere, le file davanti ai negozi: «Siamo diventati un modello»
A Codogno, un anno dopo: «Così siamo rimasti vivi»
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Glielo diceva suo padre, che in campagna non capita mai nulla, «se non il caso grave». Tuttavia, neanche una famiglia come quella di Massimo Scaglioni, che vende polizze dal tempo delle “compagnie anonime” di assicurazioni, ha messo in conto una pandemia. Impossibile che Wuhan succedesse proprio qui, in mezzo alle nebbie della bassa lodigiana. «Tornavo da Piacenza a mezzogiorno – ricorda Massimo –, quel 21 febbraio, e il mercato era già finito ».

A Codogno, dove la fiera del bestiame si ripete uguale a se stessa da duecento anni, non trovare il mercato in piazza al venerdì mattina è peggio che sentire la campana di San Biagio battere all’impazzata nel bel mezzo della notte, come avviene per le disgrazie gravi. Un anno dopo, al bar Cairoli si serve il caffè a chi è rimasto vivo e da Benuzzi, dove la moda ha prezzi milanesi, si svende. «Il ministro Speranza me l’ha chiesto tre volte, se fossi davvero pronto a firmare l’ordinanza che isolava la città».

Francesco Passerini non ha neanche quarant’anni e ha già visto la morte in faccia. La vita forgia più della politica. E con la sua firma forse di vite ne ha salvate molte. Sicuramente, ha creato il “modello Codogno”. La prima zona rossa d’Italia, la prima a fermare il coronavirus. «Più della politica conta lo stile di vita della Bassa lombarda – scandisce il sindaco, mentre lavora agli ultimi dettagli del memoriale che sarà inaugurato il 20 febbraio –. Noi, qui, siamo abituati a custodire la terra e a proteggere le vacche dal temporale, senza lambiccarci in tanti ragionamenti. Quando il prefetto mi ha avvisato che all’ospedale era stato ricoverato il paziente 1, cioè Mattia Maestri, e che eravamo il primo focolaio del Paese, ho capito che non era uno scherzo e che non esistevano alternative.


I farmacisti sulla prima linea dell’emergenza: «Distribuivamo le medicine in strada, non sapevamo niente di quello che stava accadendo»

Dovevamo chiuderci in casa, isolarci, rimboccarci le maniche e sopravvivere. La tempestività mi sembrava l’unica arma vincente ». Lo è stata. Qui, non ci sono stati i ripensamenti fatali alla Bergamasca. Una firma e la città della mela cotogna e della raspadura ha salutato il mondo per 108 giorni. «Sia chiaro che è stato un sacrificio enorme, sopportato da tutti e in particolare dai commercianti, che hanno ricevuto un ristoro minimo finora – continua il primo cittadino –; eravamo piombati in una vita che solo i vecchi, che avevano visto la guerra, erano pronti ad affrontare. Una guerra dentro e fuori. In quei giorni, chi era originario di qui, veniva respinto negli alberghi e fatto scendere dai treni… mi spiego?».

Come a Wuhan, anche qui è arrivato l’esercito, ma non c’è stato bisogno dei droni. Radio Codogno è diventata Radio Zona Rossa, la voce della città e l’avvisatore dei cittadini isolati; la Protezione civile ha distribuito decine di migliaia di mascherine nelle case; sono state consegnate due tonnellate di derrate alimentari; è nata dal nulla una fabbrica di disinfettante… «Abbiamo riscoperto la nostra professione» ammette Giuseppe Maestri, il farmacista che Mattarella ha creato cavaliere al merito della Repubblica. Anche lui, la mattina del 21 febbraio credeva ancora ad uno scherzo. «Non c’è voluto molto a capire che non era co- sì – ricorda il contitolare della centrale Farmacia Navilli – e ad organizzarci come sapevamo. Non conoscevamo, e non conosciamo neanche adesso il Sars-Cov-2; ma conosciamo i virus influenzali, per cui abbiamo creato un punto di distribuzione dei medicinali in strada, affinché la gente non si assembrasse in negozio, e abbiamo lavorato completamente protetti, con camici monouso, cuffie, mascherine ».

L’ospedale locale, che peraltro stava per essere chiuso prima dell’emergenza, era al collasso: le farmacie sono diventate un presidio importantissimo per la logistica sanitaria. Maestri non ha contratto il virus, «ma abbiamo visto morire uno dopo l’altro decine di amici e di clienti affezionati, volti noti del nostro piccolo paese. Adesso possiamo dire che tutti hanno reagito con un civismo d’altri tempi, sicuramente sostenuto anche dalla paura, ma che tutto è stato gestito, dal vertice delle istituzioni al singolo cittadino, in maniera impeccabile». Esattamente come la casa di riposo.

«Non ci sono mai mancati i dispositivi di protezione – conferma la caposala Elena Popescu –, ma neanche la paura. Tanta. Abbiamo dovuto cambiare radicalmente il nostro modo di operare, per evitare di portare il virus nella struttura e di portarcelo a casa. Dovevamo evitare un pericolo invisibile, lo stress era alle stelle». Silvia Caviada, responsabile medico della Rsa, conferma che la mortalità degli ospiti è rimasta nella media, rispetto alle altre case di riposo investite dall’emergenza, «ma qui è stato necessario sperimentare soluzioni che poi sono diventate lo standard nazionale, come l’interruzione delle visite dei parenti, successivamente riattivate mantenendo però il distanziamento assoluto tra l’ospite, nella struttura, e il congiunto, all’aperto; le videoconferenze, anche con un maxischermo; la stanza degli abbracci, con una pellicola di isolamento tra le due persone, che è stata inaugurata giovedì… è stato emozionante vedere ospiti e famigliari incontrarsi, finalmente, così da vicino». I giorni più duri sembrano lontani, ma i segni sono rimasti. Nei primi mesi della pandemia, qui, come nelle altre Rsa, sono stati gestite, con mezzi neppur lontanamente paragonabili a quelli ospedalieri, migliaia di persone fragili.



L’odissea degli operatori della Rsa: «La nostra lotta con un pericolo invisibile. La vita dei nostri anziani dipendeva ogni giorno da noi»


In questa Rsa, a marzo sono arrivati in fretta e furia un medico e un infermiere dell’esercito, perché la Caviada era rimasta sola, per di più in part-time con un’altra struttura… Ma non c’è solo il problema delle risorse. Dal punto di vista psicologico, commenta il neuropsichiatra Stefano Boggi, «è difficile gestire una comunità che presenta diversi gradi di capacità cognitiva, non può più avere rapporti con i propri cari ma intanto assiste alla fine del mondo in diretta tv: perché non dimentichiamo mai che la maggior parte degli ospiti vede la televisione e dev’essere aiutata a decodificarne i messaggi ».

Più di tremila incontri. Un lavoro enorme. «È vero. Il “modello Codogno” esiste – ammette il sindaco – ed è il frutto della collaborazione tra la Protezione civile e il volontariato, ma senza l’abnegazione di tutti i miei concittadini non sarebbe stato possibile farlo funzionare. Abbiamo dovuto farcela. Quando si sopravvive a un’alluvione si piangono i morti e i vivi iniziano a ricostruire il paese, la vita normale». L’emergenza coronavirus non è finita ma a Codogno, oggi, si contano venti positivi e due ricoverati per Covid-19. Nessun caso è grave. E Maestri può dire: «Siamo tornati a vendere aspirine».

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