L'assalto alla Stampa, Albanese e il "monito": no, la violenza non può essere mai un'opzione
La libertà di stampa deve valere sempre, perché i nemici della democrazia sono comunque criminali

Chissà se Francesca Albanese ricorda Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa morto il 29 novembre 1977. Un’agonia di 12 giorni. Quattro brigatisti rossi gli avevano sparato il 17 novembre, quattro colpi di pistola in faccia, per uccidere, devastando il viso come fanno i mafiosi. Usarono la stessa arma, la pistola russa Nagant M1895, un simbolo per le Br, con la quale il 28 aprile avevano ucciso Fulvio Croce presidente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Torino. Il 18 settembre c’era stato un attentato alla sede della Stampa. Azioni che si inserivano nella campagna contro il mondo dell’informazione. L’1 giugno venne ferito alle gambe il vicedirettore del Secolo XIX Vittorio Bruno, “gambizzato” fu il neologismo coniato allora. Il 2 giugno toccò a Indro Montanelli, allora direttore del Giornale. Il 3 luglio il direttore del Tg1, Emilio Rossi. Il 7 luglio il cronista del Gazzettino di Padova, Antonio Garzotto. Il 18 settembre Nicola Ferraro dell’Unità. Poi i brigatisti alzarono il tiro uccidendo Casalegno, primo giornalista ucciso dai terroristi. Chissà se lo ricorda la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. Allora aveva appena 9 mesi ma quel periodo, gli “anni di piombo”, sono storia italiana e non solo. I giovani che venerdì scorso hanno fatto irruzione e devastato la redazione della Stampa a Torino gridavano “giornalista terrorista sei il primo della lista” e “giornalista ti uccido”. Proprio come 48 anni fa. Ma forse questi ragazzi non lo sanno. Allora dopo il primo omicidio le Br non si fermarono. Così la “lista” dei giornalisti colpiti si è allungata. Il 24 aprile 1979 Franco Piccinelli, direttore della sede della Rai del Piemonte. Il 7 maggio 1980, l’inviato di Repubblica, Guido Passalacqua. “Gambizzazioni”. Ma poi il 28 maggio 1980 il terrorismo di sinistra torna ad alzare il tiro, uccidendo Walter Tobagi, inviato del Corriere della sera e prima di Avvenire. “Terrorista di Stato” venne definito nella rivendicazione. Già “terrorista”, come negli slogan dei giovani torinesi che hanno colpito la Stampa. Azione che la Albanese condanna aggiungendo però che “al tempo stesso questo sia anche un monito alla stampa per tornare a fare il proprio lavoro”. Anche allora non pochi “moniti” avevano anticipato “gambizzazioni” e omicidi.
Ricordo bene assemblee e manifestazioni del cosiddetto “movimento” dalle quali venivano cacciati violentemente giornalisti non graditi. “Servi dello Stato”, era l’accusa più diffusa. Anche Casalegno venne così definito nella rivendicazione dell’omicidio, proprio lui che sul giornale teneva una rubrica settimanale dal titolo, “Il nostro Stato”, nostro, appunto, di tutti i cittadini, non solo di una parte, frutto dei sacrifici di tanti, della Resistenza della quale Casalegno fu protagonista. Lui, partigiano, uomo del Partito d’Azione come molti intellettuali piemontesi che approderanno alla Stampa, era convinto che lo Stato debba far valere le sue leggi contro l’eversione senza indulgenze e compromessi, ma senza la scorciatoia pericolosa e antidemocratica di una legislazione speciale. Perché avvertiva che il pericolo maggiore del terrorismo è il «veleno insidioso» che inocula nei cittadini, spostando per paura e per reazione la maggioranza degli italiani a favore di leggi più dure. Allora e anche oggi. Per Casalegno era una linea pericolosa, «perché distrugge la democrazia senza eliminare il terrorismo, anzi gli regala militanti, simpatizzanti, giustificazioni». Mano dura verso i terroristi, dunque, ma senza uscire dai limiti costituzionali.
Ma anche condanna molto chiara di chi allora giustificava la violenza eversiva. Quella espressa anche da Walter Tobagi, cronista di strada e di dialogo, pure coi violenti. Ma senza indulgere in ammiccamenti. Giornalisti veri e liberi. Che facevano «il proprio lavoro», come invita a fare la Albanese. Cioè informare per far riflettere, da uomini liberi che informando aiutano il Paese a essere libero. Perché non basta proclamare, manifestare, in difesa della libertà di stampa. La libertà va praticata a 360 gradi, e difesa, almeno fin quando è davvero onesta e corretta. E mai colpita con violenze, anche se definite “moniti”. I giovani che hanno fatto irruzione nella sede della Stampa se la sono presa solo con gli oggetti, ma in recenti manifestazioni le violenze verbali contro i giornalisti sono sfociate non poche volte in violenze fisiche (e più ancora contro le forze dell'ordine). Azioni che devono preoccupare molto. Non solo le bombe e le intimidazioni mafiose contro i cronisti. La libertà di stampa deve valere sempre, perché i nemici della democrazia sono comunque criminali. Non smette mai di ricordarlo un grande magistrato, anche lui torinese, come Giancarlo Caselli che con la stessa convinzione ha combattuto il terrorismo di allora e di oggi, e gli interessi mafiosi: «Si può manifestare per dire “no” ma si deve sempre dire “no” alla violenza». Senza giustificazioni. Se di “monito” vogliamo parlare allora parliamo di questo “monito”. Perché, come disse Andrea, figlio di Casalegno, pur militante di Lotta Continua, «non si uccide un uomo per le sue idee».
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