La democrazia è malata e la cura (per ora) non si trova

Una ricerca presentata all'Università Cattolica fotografa lo stato di cattiva salute delle istituzioni. L'Osservatorio promosso da Polidemos: il 65% considera inutile la politica e il 64% definisce la società "guasta"
October 29, 2025
La democrazia è malata e la cura (per ora) non si trova
La democrazia è debole ma non è morta. Lo dice una ricerca promossa da Polidemos, Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, e Ipsos-Doxa su democrazia e pace presentata oggi proprio all’Università Cattolica. Secondo Damiano Palano, che dirige il centro di ricerca, «le democrazie liberali non hanno mai attraversato una fase di turbolenza come quella attuale» ed effettivamente in questa ricerca, come ha spiegato Andrea Scavo, direttore Public Affairs di Ipsos-Doxa, ci sono «luci ma soprattutto ombre». A scorrere i risultati della rilevazione campionaria, si coglie di vivere un passaggio storico in cui tutto è possibile: il 58% degli intervistati è ancora interessato dalla politica e la completa repulsione riguarda un limitato 8 per cento, pure in calo di tre punti dall’anno scorso, ma anche il trend dell’interesse popolare per la politica è negativo (68% nel luglio del 2021) e paiono in peggioramento quelle che vengono definite “sindromi” della democrazia: il 65% condivide un senso di inutilità della politica (non ci si sorprenda allora se la gente non vota…) secondo il quale le decisioni non si prendono a quel livello; nel giugno scorso era il 58%. La svalutazione della politica è un fenomeno che interessa particolarmente gli italiani più anziani (over 60), ma questo non significa che siano disfattisti: semplicemente, hanno sperimentato un’altra politica, in passato, e adesso la vorrebbero più impattante. Il 64% considera “guasta” la società e il 53% (il 34% un anno fa…) è pronto a cercare un modo diverso per governare l’Italia. Più incline a questa soluzione l’elettore di centrodestra. A sorpresa, però, non si scivola verso l’autoritarismo: innanzitutto, soprattutto i giovani della generazione Z sono ancora propensi a vivere in una società democratica pur scontando qualche problema di efficienza (in totale, la democrazia regge come scelte per il 42%, contro il 28 che la sacrificherebbe) e solo il 16% degli intervistati vorrebbe concentrare i poteri nel governo e il 52% crede che serva maggiore partecipazione dei cittadini, attraverso la democrazia diretta e i referendum. Un segnale che la democrazia è ancora vitale, ma a patto che, come ha detto Rossella Sobrero presidente di Koinetica, si superi l’attuale crisi di fiducia con un recupero della responsabilità individuale, un sentimento latitante. A confermare che non tutto è perduto concorre la tendenza a cercare una soluzione riformista, che convince ancora il 44% contro il 35 che adotta un approccio radicale. Sia chiaro: le opinioni restano pessimistiche e drastiche, come dimostra l’avversione per la classe politica (79%) e la convinzione che facciano interessi propri e non comuni (76%).
Nel malessere ha un certo peso, è stato rilevato, la marginalità sociale e il grado di istruzione e non lo migliora il contributo dell’informazione, tacciata di distorcere le notizie: il 68% non si fida proprio. C’è più fiducia nei corpi intermedi, “essenziali” per il 43%. La ricerca contiene anche un termometro della democrazia, secondo il quale la sfiducia sistemica (67) e l’antipolitica (70) raggiungono valori elevati, ma è uno spazio che ancora non viene conquistato dall’autoritarismo (33). In questo quadro pare spezzarsi il link democrazia-pace: solo il 37% ritiene che non ci possa essere pace in un mondo non pienamente democratico e chi la pensa diversamente raggiunge il 34%: sono i più anziani a credere che democrazia sia sinonimo di pace, evidentemente perché hanno vissuto quello scenario che oggi è saltato. Per contro, dalla ricerca emerge una forte contrarietà alle spese militari italiane: il 45% è del tutto contrario e il 22 poco favorevole ed i favorevoli si fermano al 18%, dato che si riduce quando si chiede agli intervistati se sarebbero disponibili a finanziare le armi con la spesa sanitaria. Un segnale che «i costi della spesa militare sfuggono alla percezione collettiva e che la politica ha il monopolio della loro conoscenza» commenta l’economista Raul Caruso, secondo cui esiste una responsabilità dell’economia nel clima di sfiducia. ««Mi preoccupa - ha detto alla presentazione - che le imprese siano considerati degli attori non importanti, come pure le banche nonostante il fatto che tutti i fenomeni connessi ai diritti - da quelli delle donne a quelli dei disabili - si generino a partire dal posto di lavoro». L’osservazione cadeva su un dato sorprendente: se non stupisce nessuno il fatto che gli intervistati percepiscano centrali nella costruzione della pace le ong e le onlus, la Chiesa e il volontariato (tutte al 22%) e persino l’università (10), le grandi imprese in questo sondaggio si collocano al 3% (come anche le piccole e medie imprese) e le banche all’uno. «Dobbiamo indurle ad assumersi le loro responsabilità» ha commentato Nicoletta Alessi, presidente di Good Point, testimoniando che esistono imprenditori sensibili. Un ottimismo della volontà che pare assecondato dagli intervistati: il 26% è convinto che promuovere un sistema economico di libero scambio aiuti la pace, come pure favorire la diffusione delle democrazie liberali (24) e rafforzare le istituzioni sovranazionali (22). Tutti quelli che, al momento, possiamo considerare solo dei buoni propositi.

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