Il suicidio di Sibilla in Svizzera. Ma i veri diritti dei pazienti sono altri
La morte di Sibilla Barbieri, attrice e malata oncologica terminale, riapre il dibattito sull'eutanasia. Così la strategia dei casi angosciosi fa perdere il punto di vista più complesso sul fine vita

La storia non è nuova. E così il suo drammatico esito. Un malato affetto da una patologia grave e inguaribile chiede di poter accedere al suicidio assistito. Anziché rivolgersi a qualcuno che lo orienta verso un percorso di cure palliative e terapia del dolore trova chi della morte volontaria ha fatto la sua missione politica. Intraprende così il percorso di accertamenti, da parte delle istituzioni etiche e sanitarie territoriali, della sussistenza dei criteri fissati dalla Corte costituzionale nella sentenza 242 del 2019 sul caso Cappato-dj Fabo. E se non ottiene il via libera va in Svizzera per suicidarsi in una delle strutture tristemente specializzate in questo settore. È accaduto di nuovo ieri con la morte di Sibilla Barbieri, attrice, malata oncologica terminale, consigliera dell’Associazione Luca Coscioni, che è stata accompagnata in territorio elvetico dal figlio e dall’esponente radicale Marco Perduca dopo che la Asl di Roma cui si era rivolta per la verifica delle condizioni per ottenere la morte assistita aveva constatato che la donna non era dipendente da supporti vitali (la nutrizione artificiale e/o la ventilazione polmonare), una delle quattro condizioni scolpite dalla Corte depenalizzando l’aiuto al suicidio in alcuni ben determinati casi.
Ora ci sarà l’autodenuncia dell’esponente radicale e l’esame del suo eventuale rinvio a giudizio. Ma occorre fermarsi al punto nevralgico di questa e di altre vicende analoghe, sempre seguite dall’associazione radicale, impegnata nella campagna per l’eutanasia legale: stare dentro il perimetro disegnato dai giudici costituzionali a garanzia delle persone vulnerabili, tutelate dalla nostra Carta, o tentare di forzarlo assimilando alla categoria del «sostegno vitale» qualunque terapia e ogni gesto di cura e di assistenza? L’Associazione Coscioni sembra voler arrivare a un nuovo pronunciamento della Corte sperando in un’interpretazione estensiva del concetto, e intanto forzando la mano alle Regioni che si trovano a gestire casi eticamente delicatissimi e umanamente complessi, spinte a legiferare nel senso che gli stanno indicando con questi ripetuti casi di richiesta di suicidio e di morte. Della materia dovrebbe però occuparsi il Parlamento, come indicato dalla Corte quando specificò le condizioni di accesso alla pratica come eccezione alla punibilità di un reato (l’aiuto al suicidio che resta tale). L’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale infatti era limitata al fatto che «non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 (sulle Disposizioni anticipate di trattamento, o sul “fine vita”, ndr), agevola l’esecuzione del proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».
Tutto molto chiaro, integrato da una importante precisazione della Corte sull’«accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza», accesso che «spesso si presta a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita». Di tutta questa complessità, però, quando emergono casi come la tragica fine di Sibilla Barbieri attraverso auto-somministrazione di un farmaco letale nulla si dice. Finendo persino col sostenere che in Italia una legge sul fine vita non ci sarebbe, mentre ce ne sono due: la 219 e la 38 che dal 2010 parla di cure palliative e di terapia del dolore come diritto di tutti i cittadini. Un diritto disatteso, come dimostrano i dati che comparando il fabbisogno di cure pallliative con la loro disponibilità parla di un 23% medio, con alcune regioni dove si raggiunge a malapena il 17. Di quali diritti occorre parlare, allora? La strategia dei casi angosciosi torna ora in scena con frequenza crescente, con l’intento di spingere il Paese ad accettare ogni forma di morte a richiesta come forma di “libertà di scelta” su di sé. Ma quale libera scelta può darsi se mancano cure adeguate alla sofferenza estrema universalmente accessibili?
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