I diritti dell'infanzia ci sono. Perché restano solo sulla carta?
Nella Giornata mondiale dedicata ai bambini, proviamo a rileggere i principi della Convenzione Onu ratificata da tutti i Paesi (tranne gli Usa): sul rispetto della privacy e sui compiti dei genitori, stiamo assistendo a una sistematica violazione dei punti-chiave legati alla protezione del minore

Che i diritti dei bambini non siano sempre e ovunque tenuti in considerazione è sotto gli occhi di tutti: vittime delle guerre, affamati, abusati, comprati e venduti, costretti a lavorare per vivere, a sposarsi quando non ne hanno l’età. E l’elenco – ahiloro – potrebbe continuare ancora a lungo. Se si facesse una spunta a ogni diritto previsto dalla Convezione Onu dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ratificato da tutti i Paesi (tranne gli Stati Uniti) e non rispettato, quasi tutti avrebbero il loro bel baffo rosso. Qualcuno di quei diritti lo violiamo sistematicamente - e a volte senza tutti i torti – anche noi che viviamo in un Paese in pace, nutriamo (fin troppo) i nostri figli e garantiamo loro protezione, istruzione e amore.
Prendiamo l’articolo 16, il diritto alla riservatezza. Se il testo capitasse in mano a un tredicenne che volesse mettere i puntini sulle i, potrebbe chiudersi in camera per garantirsi un po’ di privacy. Ne avrebbe il diritto. E, sempre nello stesso articolo, si afferma che nessuno può leggere la corrispondenza di un minore senza il suo permesso. Vero è che, di questi tempi, di lettere ne circolano pochine ma, tradotto ai tempi di internet e di WhatsApp significa che mamma e papà non devono controllare i messaggi via chat che i loro figli scrivono o ricevono? Esatto, no, non possono. Però… Un genitore che conosca la Convenzione potrebbe sfoderare l’articolo 5: prevede che la famiglia debba proteggere i bambini e occuparsene, far vivere loro un’infanzia felice e aiutarli a crescere. Quindi anche tenerli al sicuro da chi potrebbe prendersi gioco di loro sulle chat o sui social (a cui dai 14 anni, purtroppo, si può accedere), ingannarli e bullizzarli, far loro del male.
L’articolo 12 garantisce al bambino “capace di discernimento” il diritto di esprimere la propria opinione su qualsiasi questione lo riguardi, e che le sue opinioni vengano debitamente prese in considerazione. Ma quante sono le scelte - che pure li vedono oggetto – che passano sopra la testa di adolescenti e bambini? Un articolo dà e un articolo toglie: il numero 3 attribuisce ai genitori la responsabilità di pensare al bene dei figli, al loro interesse e al loro futuro e a chi non è capitato di dover prendere decisioni sgradite ai figli ma comunque a loro vantaggio?
Quando la Convenzione Onu fu messa nero su bianco nel 1989, il web era molto lontano dal diventare quel che è oggi. Facebook non esisteva – è stato fondato quindici anni dopo, nel 2004 – e tantomeno Instagram e TikTok. Non esisteva neppure il verbo “postare”, registrato per la prima volta dal dizionario Treccani nel 2008, e nemmeno qualcosa da postare: il primo telefono con fotocamera si è affacciato sul mercato nel 1999 e, quindi, è comprensibile che il testo del 1989 non preveda anche un diritto dei bambini a preservare la propria immagine, aggiunto solo nel 2021 con il Commento Generale n. 25 che integra la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia per il mondo digitale, riconoscendo la validità dei diritti dei minori sia online che offline.
In sintesi, le fotografie dei bambini devono essere considerate private e nessuno può sfruttarle, neppure i genitori. Questo è uno dei diritti più trascurati come dimostra il fatto che nel 2023 molti vocabolari hanno registrato tra i neologismi il termine “sharenting”, nato dall’unione della parola share (condividere) con parenting (genitorialità). Indica la pessima abitudine di postare le foto dei figli. Secondo uno studio pubblicato nel 2023 su Italian Journal Pediatrics, circa il 65,7% dei genitori intervistati condivide foto dei propri figli sui social e la quasi totalità (il 93%) non è a conoscenza delle norme che tutelano l’immagine dei minori, mentre la Società italiana di pediatria certifica che entro poche settimane dalla nascita il 33% dei bambini ha già informazioni o foto pubblicate online e qualuno arriva sul web ancora prima che al mondo: il 15% delle future mamme posta già l’ecografia. Sempre secondo la Sip, ogni bimbo può vantare 300 foto l’anno sui social. Già nel 1989, chi stilò i diritti dei bambini stabilì – sempre nel già citato articolo 16 – che nessuno può danneggiarne la reputazione. Eppure, il web è pieno di foto e filmati che immortalano i più piccoli in pose e situazioni spesso assurde. Ogni volta che si pubblica un’immagine online bisognerebbe pensare a che effetto farà rivederla a distanza di anni. Farà ancora tenerezza o causerà imbarazzo? Strapperà un sorriso o farà sgorgare lacrime? Potrebbe non piacere più: è il rischio dello sharenting, perché online niente si cancella, tutto rimane a disposizione di chiunque. L’identità digitale - tutti i dati di una persona fisica che agisce nel web - ha effetti concreti e reali sul futuro delle persone.
Lo sharenting è da tempo oggetto di discussione e ci sono sul tavolo diverse proposte di legge per la tutela dei minori nella dimensione digitale mentre il Garante per la protezione dei dati personali è più volte intervenuto sul tema, ha una pagina dedicata allo sharenting, in cui mette in guardia sui rischi legati all’identità digitale dei minori e quest’anno ha avviato una campagna con lo slogan “La sua privacy vale molto più di un like”, per sensibilizzare i genitori sull’impatto potenzialmente duraturo della condivisione di immagini dei figli sui social.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Temi




