Emanuele e gli altri malati: chi vuole essere libero di scegliere la vita
Mentre a Perugia moriva Laura Santi, a Brescia si spegneva per la Sla il 40enne avvocato Emanuele Foresti: il Signore, diceva, può parlare anche attraverso il dolore vissuto nella fede

Proprio mentre a Perugia la 50enne giornalista Laura Santi poneva fine alla sua esistenza, somministrandosi in casa un farmaco letale dopo tanta sofferenza dovuta alla Sclerosi multipla, e il relativo via libera dell’apposita commissione medica, a Brescia un avvocato quarantenne, Emanuele Foresti, moriva dopo cinque anni di battaglie quotidiane contro la Sla. Decidendo di vivere la malattia in altro modo, fino all’ultimo, anche in presenza della prova fisica e psicologica più estrema. E anzi, chiedendo, poco prima di morire, che la sua vicenda «non venisse dimenticata, che ciò che ha vissuto potesse raggiungere altri cuori. Credeva che il Signore possa parlare anche attraverso il dolore vissuto nella fede e che questa testimonianza possa donare forza e luce a chi affronta prove simili».
A rivelarne la storia, in una un toccante lettera, è monsignor Giambattista Francesconi, parroco del centro storico di Brescia, coordinatore dell’Unità pastorale dello stesso territorio, quello dove abitava Emanuele, e assistente dell’Istituto Pro Familia. «Emanuele è stato per me molto più di un fedele – afferma il sacerdote –. Sono stato il suo parroco da dieci anni, e con lui ho condiviso un cammino spirituale intenso, reale, concreto. Era un giovane uomo profondamente credente, ma anche autenticamente umano, capace di mettere a nudo il suo travaglio interiore, soprattutto nel confronto con la croce della malattia». Un travaglio che ha messo a dura prova il suo stesso rapporto con Dio, che ha minato un pur solido percorso di fede, che ha inchiodato un uomo lacerato dal dolore a interrogativi drammatici. Ma il travaglio non lo ha vinto.
Nel tempo, osserva monsignor Francesconi, «la sua relazione con il Signore ha attraversato tensioni, domande, silenzi, persino una fase di apparente abbandono della fede. Ma poi, in modo misterioso e luminoso, Emanuele ha ritrovato Dio nella sua sofferenza. E negli ultimi mesi, ormai completamente allettato e paralizzato, ha vissuto la luce della Risurrezione dentro il dolore più estremo... Con la signora Emiliana Franchi, lo abbiamo accompagnato settimanalmente con la Comunione e il sacramento della Riconciliazione. Ma è stata tutta la comunità parrocchiale a stringersi attorno a lui in una catena di preghiera», assieme «anche alle famiglie del Pro Familia, realtà diocesana di cui sono assistente e che è attiva fino in Togo». La riflessione del parroco, nel rispetto di chi ha fatto scelte diverse, torna alla cronaca di questi giorni: «Viviamo in un tempo in cui fanno notizia casi di disperazione, di chi, in condizioni analoghe, sceglie di porre fine alla propria vita. Credo invece che sarebbe giusto dare spazio anche a chi, come Emanuele, ha scelto di offrire la propria vita fino all’ultimo respiro, con fatica e dolore, ma nella luce del Signore».
Perché esisterà pure «un diritto alla vita delle persone disabili» in un momento in cui ci si concentra quasi esclusivamente sul «diritto alla morte per il disabile grave»? L’interrogativo, tutt’altro che scontato, ce lo pone la lettrice Elide Siviero, «con disabilità definita al 100%», che «da 18 anni combatte con la Sclerosi multipla», e con un «dolore neuropatico cronico, farmacoresistente: non dormo mai sul mio letto, ma seduta sul divano e solo per qualche ora». Lo sfogo della signora trae origine dal dibattito etico attuale: «È come se dei disabili si parlasse solo in merito alla loro eliminazione veloce e indolore – scrive –, senza favorire nulla che possa portare ad una vita dignitosa anche chi vive in queste situazioni difficili». Per le quali sarebbe utile si ponesse l’accento «sulle cure palliative», delle quali invece «non si parla. E questo nasce dal fatto che davvero c’è poca attenzione per i disabili».
Nella sua lettera, Elide, che vive a Padova, elenca quindi le tante difficoltà quotidiane per chi vive la sua condizione, a prescindere dalla barriere architettoniche: dalla richiesta di ausili «che va portata a mano, allo sportello per la patente dei disabili allocata in una struttura priva di parcheggi per disabili», fino «allo sbaglio dell’Inps nel conteggio della pensione». Ma il tema è anche «la carenza di aiuti e di personale per chi ha un disabile grave in casa».
Nella sua lettera, Elide, che vive a Padova, elenca quindi le tante difficoltà quotidiane per chi vive la sua condizione, a prescindere dalla barriere architettoniche: dalla richiesta di ausili «che va portata a mano, allo sportello per la patente dei disabili allocata in una struttura priva di parcheggi per disabili», fino «allo sbaglio dell’Inps nel conteggio della pensione». Ma il tema è anche «la carenza di aiuti e di personale per chi ha un disabile grave in casa».
La conclusione di Elide Siviero è amara: «L’attenzione è sempre posta sul suicidio assistito, perché è più comodo e più semplice. È più pratico brandire la morte che favorire la vita e rendere più semplice l’esistenza di un disabile. Lei vede dei disabili che partecipano a qualche gioco televisivo? Qualche giornalista in sedia a rotelle? Il disabile è brutto, sgraziato, inguardabile: compare solo quando c’è un problema. Ma una grande sete di vita abita in ciascuno: chiedo che qualche volta si parli anche di questo».
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