Basta una certificazione per fermare lo sfruttamento nella moda?
di Cinzia Arena
Introdotta nel ddl sulle pmi secondo opposizioni e sindacati tutelerà solo la reputazione dei marchi, non i lavoratori. La Cisl parla di occasione mancata

Arriva la “certificazione di conformità” per la moda italiana. Il meccanismo inserito nel disegno di legge sulle pmi approvato in prima lettura al Senato mercoledì sera dovrebbe garantire il rispetto delle regole, nonché del buon nome del “made in Italy”. Ma per chi lo contesta si tratta di un vero e proprio “scudo”, che mette al riparo le griffe dalle inchieste e le assolve dalle responsabilità sulle eventuali condotte scorrette delle aziende subappaltatrici. La misura, inserita in Commissione con una serie di emendamenti di Fratelli d’Italia, prevede una certificazione, su base volontaria, sulla correttezza in materia di lavoro, fisco e sicurezza lungo tutto la filiera, dalla capofila ai subfornitori. Le verifiche saranno effettuate da soggetti abilitati alla revisione legale e consentiranno alle imprese di utilizzare la dicitura “Filiera della moda certificata”. Tra i requisiti indispensabili l’assenza di condanne penali negli ultimi cinque anni per titolari e amministratori, la regolarità contributiva e fiscale, e il rispetto della normativa (in particolare l’applicazione dei contratti nazionali) a tutela dei lavoratori. Per il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, è «un passo storico», visto che la legge sulle pmi , che si occupa anche della filiera della moda, «era attesa da oltre dieci anni». Se le intenzioni sono buone le conseguenze, almeno per i critici della misura, saranno irrilevanti nel contrasto al caporalato. Si rischia di tutelare la reputazione dei marchi e non i diritti dei lavoratori, con un colpo di spugna che arriva dopo la lunga serie di inchieste sullo sfruttamento che ha coinvolto molti brand famosi.
La certificazione, subito ribattezzata “salva Tod’s” perché arrivata dopo le indagini che hanno coinvolto il gruppo, era stata illustrata al tavolo sulla moda dal ministro Urso lo scorso 15 ottobre, in un incontro con le associazioni di settore, dal quale erano stati esclusi i sindacati. Già in quell’occasione Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil avevano espresso una «forte preoccupazione per l’eliminazione della responsabilità organizzativa e gestionale delle imprese committenti» denunciando il comportamento scorretto, sia nel metodo che nel merito. «Siamo passati dallo scudo fiscale allo scudo penale per chi sfrutta» aveva commentato a caldo Alessandro Genovesi, responsabile Contrattazione inclusiva, appalti e lotta al lavoro nero della Cgil. Le speranze di una correzione in corsa nel passaggio dalla Commissione all’aula, sono state deluse. Il testo è stato approvato e adesso passerà al vaglio della Camera. Le opposizioni hanno presentato un ordine del giorno per denunciare quella che hanno definito una “barbarie”, vale a dire lo smantellamento di una legge di dignità e legalità come la 231. «Questo governo ha due facce: da una parte apre tavoli di confronto sulla sicurezza nel lavoro e contro il caporalato, dall’altra toglie gli strumenti che servono davvero a combatterli», ha detto la senatrice di Italia Viva, Annamaria Furlan, illustrando l’odg ovviamente respinto dall’aula. Di un’occasione mancata parla la Cisl con la segretaria generale della Femca, Nora Garofalo che sottolinea come sia le aziende che i sindacati da tempo chiedessero delle misure per combattere forme di concorrenza sleale e dumping contrattuale, al centro già nel 2018 di una ricerca della stessa Femca.
«La cosa positiva è che finalmente si fa qualcosa dopo anni di riunioni. Era necessario un sistema di qualificazione delle imprese sul piano della responsabilità sociale, una sorta di “patentino” come quello introdotto per la filiera bio e la logistica con buoni risultati –. Sull’onda delle ultime inchieste c’è stata un’improvvisa accelerazione». La fretta però si sa è una cattiva consigliera. «Nel metodo non c’è stata nessuna condivisione con le parti sociali, nel merito ci sono lacune e contraddizioni a partire dal fatto che la certificazione da un lato chiede alle aziende di vigilare sulle subappaltatrici, dall’altra annulla la responsabilità del committente». Altrettanto contorto il ruolo degli enti certificatori, non è ben chiaro quali saranno e cosa certificheranno. «Tra gli emendamenti approvati ce n’è uno passato quasi inosservato che sostiene che tutte le aziende della filiera devono adottare i contratti collettivi, “ferma la possibilità di applicare accordi aziendali che prevedano dei trattamenti complessivamente non peggiorativi anche nei confronti delle aziende terziste e fornitori dei prodotti”, una definizione che lascia aperta di fatto la strada al dumping contrattuale». Invece di intervenire di corsa, è la riflessione di Garofalo, si poteva pensare ad un’articolazione legislativa ponderata per mettere ordine in un settore importantissimo. «La delegittimizzazione del made in Italy è un rischio reale e servono soluzioni concrete. La filiera della moda è lunga e complessa e va chiarito che le aziende capofila hanno una responsabilità sociale, prima ancora di quella giuridica. Speriamo che il ddl possa essere migliorato». Cinzia Maiolini, segretaria nazionale della Filctem Cgil spiega come la richiesta dei sindacati di essere convocati al Mimit abbia avuto come unico risultato una convocazione in corner lo scorso 20 ottobre, da parte dell’ufficio giuridico del ministero, per illustrare, a cose ormai fatte, il provvedimento. Contestato l’intero impianto della certificazione. «Innanzitutto i certificatori sono revisori dei conti privati registrati al Mef che valutano aspetti non inerenti direttamente alla catena di produzione ma generici, dalle condanne penali al pagamento di tasse e contributi previdenziali – sottolinea Maiolini –, in secondo luogo la certificazione è volontaria. Ma è soprattutto la mancanza di parametri da applicare e far rispettare ai committenti che ci lascia perplessi. La certificazione prevede la presunzione di innocenza per le aziende che hanno attuato le misure di prevenzione, adottando un modello organizzativo virtuoso. Noi abbiamo chiesto di definirlo questo modello: servono indici di congruità oggettivi dei contratti di affidamento, partire dalle tabelle di tempo impiegato e di costo minimo per la realizzazione delle lavorazioni». Le inchieste della procura di Milano, ricorda Maiolini, hanno fatto emergere livelli di sfruttamento elevati, «con paghe da 2,75 l’ora al di fuori di qualsiasi regola». Nel distretto tessile di Prato, il più grande d’Europa, ci sono opifici che si reggono sul lavoro nero o grigio, con costi di realizzazione di borse e abiti, stracciatissimi. Impensabile, secondo la segretaria Cgil, che le aziende committenti non si rendano conto di questa discrepanza.
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