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Più pallone virtuale, ma quello buono è vero

Mauro Berruto mercoledì 25 gennaio 2017
Sono passati quindici mesi da quando è stata presentata la nuova versione del videogame calcistico Fifa 2016 che in una sorta di storica anteprima, per la prima volta, includeva la possibilità di giocare con squadre femminili. Le nostre calciatrici in carne ed ossa, in quel momento, stavano minacciando uno sciopero rivendicando di sentirsi ruota di scorta del calcio maschile e facendo precisi riferimenti a problemi da risolvere, quali il vincolo sportivo, gli accordi economici pluriennali e il fondo di garanzia, ma il mondo (anche se la notizia sembrava banale) stava già andando in un'altra direzione.
Con dati cumulativi di vendita di 17 milioni di copie, Fifa non si differenzia dagli altri videogiochi sportivi nell'essere, che ci piaccia o no, un vero codice culturale, che ha assunto un ruolo potentissimo per educare al calcio gli adolescenti soprattutto statunitensi. In una nazione, gli Usa, per più di un secolo ostile al calcio stesso (così come ostili erano, e ancora sono, le lobby di grandi sport più dichiaratamente americani, come il baseball, il basket e l'hockey su ghiaccio), un videogioco è stato il cavallo di Troia che ha contribuito all'abbattimento di barriere culturali e pregiudizi sul calcio, prima in generale e poi nella sua declinazione al femminile.
Qualche giorno fa un signore sovrappeso ormai quarantenne, che è stato uno dei più grandi calciatori (veri, non virtuali) del XX secolo, ha pubblicato sul suo profilo Instagram la decisione di investire pesantemente nel mondo dei videogiochi, diventando partner di Cnb e-Sports, uno dei più grossi protagonisti degli sport elettronici in Sudamerica.
Si tratta di Ronaldo, O Fenômeno, due volte campione del mondo con il Brasile e per tanti anni protagonista in Italia con la maglia dell'Inter. Lui stesso parla di un fenomeno (non certo come lui) con oltre 70 milioni di telespettatori che ha generato un'industria di 610 milioni di dollari in investimenti, sponsorizzazioni e premi ai giocatori. Chiunque di noi abbia visto un figlio o un nipote giocare a un videogioco sportivo sa bene che la tecnologia ha raggiunto un livello di iperrealismo che è difficile persino da spiegare.
Questa incursione in area da parte di Ronaldo, attraverso lo sport virtuale, in quella parte di mondo, fa riflettere. Il Sudamerica è il luogo del futbol bailado, dove il calcio è nato, cresciuto e diventato vincente grazie all'immagine un po' stereotipata, ma certamente vera per chi almeno una volta ha potuto vedere di persona, descritta della leggerezza, dalla gioia, dalla felicità di tirar calci a una palla. Magari una palla di pezza. Sulla spiaggia, in strada, nelle piazze, nei cortili. Se gli Usa erano un territorio da "colonizzare", e un videogioco lo strumento per portare lì il calcio vero, in Sudamerica il processo è uguale e contrario: i barbari sembrano essere alle porte del calcio vero per provare a sostituirlo con quello virtuale.
È difficile non essere nostalgici – certi, peraltro, che la nostalgia porti con sé grande energia e capacità di mettersi in moto – di un tempo, non poi così lontano, in cui anche il nostro sport e i nostri campioni nascevano negli oratori. Luoghi dove erano vere le relazioni, i compagni, gli avversari, gli arbitri, i palloni. D'altronde, lo raccontava Eduardo Galeano, poeta uruguagio del calcio, descrivendo l'episodio di un giornalista che chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: «Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?». Lei rispose: «Non glielo spiegherei, gli darei un pallone per farlo giocare». Un pallone appunto, non un joystick.