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Davide contro Golia, eleganza e verità nello sport

Mauro Berruto mercoledì 5 aprile 2017
Davide batte Golia. Quante leggendarie storie di sport richiamano alla nostra memoria il racconto biblico descritto nel primo libro di Samuele? La dinamica è nota: Golia, gigante guerriero apparentemente invincibile, terrorizza l'esercito di Saul. Nessuno degli Ebrei osa sfidarlo, fatta eccezione per un giovane pastore, Davide. Fra le ironie degli scettici, con un mix di sfrontatezza, incoscienza, astuzia finirà, armato solo di una pietra e di una fionda, per abbatterlo. L'ultima riproposizione di questa storia antica rimbalza fino a noi dalle semifinali del torneo Ncaa di basket femminile, negli Usa.
Golia-Connecticut, è per quattro volte consecutive detentrice del titolo, ha vinto tutte le sue ultime 111 partite. Si tratta dell'imbattibilità più lunga della storia del basket universitario americano: 865 giorni. Ma Davide-Mississippi, scaglia la pietra decisiva con la sua fromboliere, Morgan William, canotta amaranto con il numero 2 sulle spalle, che piazza un tiro un po' scomposto all'ultimo istante del tempo supplementare. Punteggio, fino a lì: 64-64.
Fate un esercizio: cercate il filmato su internet e fermatelo quando la parabola di quel tiro un po' sbilenco inizia la sua discesa. Dieci atlete in campo, le panchine in piedi, un palazzetto intero affollato all'inverosimile: tutti fermi, immobili. Un'apnea collettiva, di migliaia di sguardi e respiri tutti orientati verso un anello di ferro di 45 centimetri di diametro. «Nothing but the net» direbbero gli americani, ovvero la palla che si accomoda perfetta nella retina del canestro, senza toccare il ferro dell'anello o il tabellone. Finisce tutto lì dentro, in una specie di buco nero che inghiotte il pallone e innesca due stati d'animo contrapposti. La gioia sfrenata di metà palazzetto, la sensazione di una leggenda che finisce per l'altra metà.
Sono tornato con la memoria a quasi trenta anni fa, quando Edwin Moses scavalcava sulle piste di atletica, ostacoli reali e metaforici con la stessa determinazione. Era un atleta laureato in fisica e ingegneria, religioso, appassionato di letteratura e musica classica, fondatore, presidente, allenatore e unico atleta di una società chiamata "Utopia". Vinse, quasi da sconosciuto, l'oro ai Giochi di Montreal 1976, specialità 400 ostacoli. Un anno dopo, il 23 agosto 1977, fu sconfitto da un certo Harald Schmid, in un meeting a Berlino Ovest. Moses lo sconfisse (di 15 metri) la settimana successiva inaugurando così la più incredibile imbattibilità della storia dell'atletica: 122 gare consecutive, quasi un decennio.
Per crearsi nuovi stimoli, mise a disposizione dei suoi sfidanti una sontuosa posta in palio: la sua testa. «Alla prima sconfitta – disse – mi ritirerò». La sconfitta arrivò dal connazionale Danny Harris nel 1987. In realtà Moses continuò, per inerzia, fino ai Giochi Olimpici di Seul dove, nella sua ultima finale, un altro americano con il nome di un videoregistratore, André Philips, pose definitivamente fine al Regno degli ostacoli bassi di Edwin Moses che si distinse per eleganza, lì e dopo, andando poi a lavorare per cambiare l'atletica leggera e a sviluppare le prime vere politiche anti-doping della storia di quello sport.
Ora potete riprendere l'esercizio: fate andare avanti il filmato della semifinale Ncaa e dopo pochi secondi guardate l'immagine dei due coach: quello che ha vinto e quello che ha perso. Troverete la stessa eleganza. Due uomini che si guardano, con la compostezza che regala l'idea di aver fatto, entrambi, la storia. Si sorridono e abbracciano. Quasi non si capisce chi abbia vinto e chi abbia perso. Ecco, in quel fotogramma troverete facce di campioni veri.