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Cúcú, il “manifesto” di Toscani che fa pensare

Giuseppe Matarazzo lunedì 12 aprile 2021

Cúcú. Nel regno dominante di Instagram e della bulimia delle immagini, bombardati da milioni di foto “usa e getta”, ecco la sorpresa. In un “manifesto”, la forma di comunicazione più semplice e “antica”: foto “pubblicitarie” che non vendono nulla, ma fanno pensare. Una campagna di affissione, murale e sui pannelli digitali sparsi per Milano, per trasmettere un messaggio, invitare a fermarsi e a porsi qualche domanda. Il progetto si chiama proprio “Cúcú” - «come la sorpresa dell’inatteso, come il cuculo che fa le uova nei nidi altrui» - e raccoglie inizialmente trenta fotografie che il noto fotografo e creativo Oliviero Toscani ha selezionato, insieme a tante altre, fra le seimila che giovani fotografi italiani gli hanno inviato rispondendo a una call, lo scorso anno, in pieno lockdown. Il risultato è un esperimento - ancora circoscritto - ma decisamente significativo. Un ritorno all’antico? «No, un ritorno a quello che credo sia il mezzo più proporzionale ed efficace di comunicazione: ciò che si vede per strada e nei luoghi pubblici, semplicemente alzando lo sguardo, mentre si cammina, senza filtri. Una immagine che fa pensare – spiega Toscani, 79 anni, con alle spalle una carriera che ha già lasciato il segno nella storia della fotografia e della comunicazione -. Mi piace il manifesto, perché tocca una sensibilità di riflessione unica. E soprattutto la possibilità di utilizzare uno spazio destinato alla “vendita” di prodotti per promuovere invece un’idea…». Con Creative Media, Toscani ha proposto allora agli editori e alle società di affissione come Defi, Global, Ipas, Llg, Mediamond e Pubblimun «di concederci degli spazi vuoti per provare a comunicare qualcosa che non vendesse niente. Fotografie, visioni che al massimo possono “consumare” intelligenza e ironia».

Così fra le pubblicità di auto e moto, integratori alimentari, scarpe e vestiti, il prossimo evento (online) e il “Go” del Comune per «la città che si muove», ecco che in trenta luoghi di Milano appare una fotografia. Curiosa, intrigante, sorprendente. Senza parole. Solo “Cúcú” e la firma dell'autore dello scatto. Un viso dietro un’agenda, una mucca “spezzata” da un muro, una batteria di facce strane, una ragazza che conta i giorni, il tenero abbraccio a una nonna, azioni bizzarre, la mascherina in stile “yin e yang”... Cosa sono queste foto? Cosa nascondono? Che significato hanno?

Uno dei tanti manifesti del progetto "Cúcú" ideato da Oliviero Toscani e diffuso per le strade di Milano - Foto di Luca Pizzuto

Toscani fa il “photo editor”, sceglie le immagini che testimoniano il nostro tempo, incerto e buio, con un progetto partecipato: un atto d’amore verso la fotografia come possibilità comunicativa; i muri usati per veicolare un messaggio culturale, come i “murales”, un nuovo modo di fare “street art”. Per ritrovare il senso della fotografia, così abusata, così distorta ogni giorno, a colpi di post, filtri e ritocchi in questo tempo dei social e del “siamo tutti fotografi”. D’altronde Toscani non ha mai risparmiato critiche agli effetti collaterali del sistema social. Sulla scia di Umberto Eco («I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività»), il geniale e controverso fotografo anni fa si espresse così: «La cosa che hanno fatto i social network? Mettere gli imbecilli in ordine alfabetico». E sullo specifico della fotografia da smartphone "applicata" ai social, tenendo la sua lezione magistrale al Laboratorio di Resistenza Permanente della Fondazione Mirafiore a Serralunga, ospite di Oscar Farinetti, lo scorso anno ribadì: «Oggi siamo tutti fotografi. Ma quanto tempo dedicate ogni giorno alla vostra immaginazione, alla vostra fantasia? La verità è che andate tutti a cercarla sul telefonino, sui computer e su quei campi di concentramento volontari che sono i social».

I social sono lontani dal senso della fotografia di Toscani. «La fotografia è la memoria storica dell’umanità. Al contrario dell’arte "tradizionale", sempre più appannaggio di un manipolo di ricchi e professionisti che la usano ormai per puro investimento, dimenticando il suo valore di servizio pubblico. Quello che ispirava la vera arte, quella inventata e promossa dalla chiesa che serviva a comunicare con la gente, a educarla e a elevarla. Oggi questo ruolo ce l’ha l’immagine. E la forza dell’immagine è il silenzio – dice Toscani, che su questo tema riflette ampiamente nel suo ultimo libro, intitolato Caro Avedon. La fotografia in 25 lettere ai grandi maestri (Solferino) –. Pensiamo alla foto del piccolo Aylan, il bambino, profugo siriano, morto annegato davanti alla spiaggia di Bodrum. Cosa aggiungere, cosa dire di fronte alla potenza e al significato di quell’immagine? La fotografia parla da sola. E la si guarda da soli. Ci mette davanti alla sua e alle nostre responsabilità socio-politiche». Ecco allora la sfida di Toscani. Il suo “manifesto”. Sempre fuori dagli schemi. Che parte dal basso. Dagli altri. Dai più giovani. Dai talenti nascosti nel nostro Paese. In attesa del suo prossimo guizzo. Il suo “Cùcù”.

Una foto e 787 parole.