Rubriche

Chiamati alla pienezza e alla creatività

Ermes Ronchi giovedì 13 novembre 2008
XXXIII Domenica
Tempo Ordinario " Anno A

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro (...)».

Questa parabola è la sintesi delle due forze opposte di cui si nutre ogni vita: l'emozione e la disciplina, il talento e il lavoro. In quale servo mi riconosco? Nei primi due, quelli che lavorano il loro capitale, il loro splendido dono: e vedono il mondo, gli uomini, il tutto come un dono iniziale che progredisce, un giardino incompiuto che deve crescere e fiorire? Oppure mi riconosco nel terzo servo, quello che non fa progredire niente, uomo inutile al futuro? Il cuore segreto delle cose è un appello a crescere; una spirale d'amore crescente è l'energia. Come per il campo arato che non può restituire in estate solo il seme che ha ricevuto, così per noi, tra semina e mietitura, il nostro ruolo è la moltiplicazione. Pena il non senso della vita. Il terzo servo ha un cuore malato, senza desiderio. È un esule della creazione, esiliato e inutile, non a immagine del Dio creatore, che sparge a piene mani i suoi germi di luce e di vita, con magnifica esuberanza. Il terzo servo non crea più: solo conserva. Ma il mondo e il cuore non ci sono dati come cose da conservare, come fragili miracoli che possono rompersi fra le mani, ma devono ascendere gloriosamente verso la pienezza. Non siamo dei conservatori di cose preziose e minacciate, ma dei creatori di opere nuove, servitori della forza lievitante nascosta dentro tutto ciò che vive. Solo così la nostra vita non sarà inutile al divenire comune. Così è per i primi due servi: nella loro mente non c'è un rendiconto che incombe e turba i sonni, ma una vita che chiede di crescere. Vocazione nostra è di essere emozionati e disciplinati artefici di creazione; il nostro incarico, il nostro vanto, è di lasciare il mondo un po' più bello di come l'abbiamo trovato. C'è nel Vangelo tutta una teologia del seme, del lievito, del germoglio, della gemma, di inizi come doni pieni di grazia. A noi tocca il cammino, gli itinerari di emozione e disciplina, l'estate odorosa di frutti. Dio è la primavera del cosmo: a noi il compito di creare l'estate dei frutti. Il mondo è un giardino incompiuto e incamminato. La parabola è il poema della creatività, senza voli retorici: nessuno dei servi crede di poter salvare il mondo. Tutto invece odora di casa, di viti, di olivi, di lana, di lavoro e di attesa. Il padrone tuttavia non vuole per sé i talenti, essi restano ai servi fedeli. Anzi li moltiplica: questa spirale d'amore crescente è il nome segreto di tutto ciò che vive.
(Letture: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31; Salmo 127; 1 Tessalonicesi 5,1-6; Matteo 25,14-30)