Opinioni

Il neo-presidente Buhari e la lotta a Boko Haram. «Ripulire» il Palazzo prima urgenza in Nigeria

Giulio Albanese mercoledì 10 giugno 2015
​L’escalation di violenze si è intensificata in Nigeria dopo l’insediamento ufficiale, lo scorso 29 maggio, del neopresidente Muhammadu Buhari, un ex dittatore "convertitosi" agli ideali democratici. A due mesi dalla vittoria elettorale, accolta dalla comunità internazionale come un passo importante verso la stabilizzazione interna, nonostante il movimento jihadista Boko Haram sia stato costretto ad un’affannosa ritirata in diverse zone del nordest del Paese, i ribelli hanno nuovamente alzato la cresta, compiendo raffiche di attentati. Tutto questo è coinciso con l’annuncio da parte di Buhari, appena insediatosi, di voler trasferire il quartier generale dell’esercito dalla capitale Abuja proprio a Maiduguri, nel tormentato Stato del Borno, per rendere più efficace la lotta contro il gruppo jihadista. Una sfida, quella lanciata da Boko Haram al neopresidente, divenuta anche mediatica con la diffusione di un video di propaganda in cui soldati feriti e inermi vengono finiti, uno dopo l’altro, con un colpo d’arma da fuoco alla testa. Nel video si intravedono, peraltro, anche quelli che i ribelli definiscono «resti di un aereo da combattimento nigeriano» e che sostengono di aver abbattuto. Non a caso, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, il principe giordano Zeid bin Ra’ad al-Hussein, ha sollecitato Buhari e il suo governo a reagire adeguatamente agli «orripilanti atti di crudeltà e di violenza perpetrati da Boko Haram», senza peraltro trascurare gli abusi attribuiti ai militari nigeriani contro i detenuti sospettati di appartenere al gruppo eversivo. E dire che Buhari, musulmano originario del Nord del Paese, conosce molto bene il fenomeno Boko Haram, godendo, peraltro dell’appoggio dei governatori delle regioni settentrionali, accusati dal suo predecessore, Goodluck Jonathan, di fare il doppio gioco durante la sua presidenza. Questi signori, è bene rammentarlo, da una parte condannavano gli estremisti, dall’altra però spesso li appoggiavano, sotto banco, nella loro rivolta. Sta di fatto che ora Buhari e il suo partito – All Progressives Congress – avendo vinto la tornata elettorale, promettendo ai nigeriani una lotta senza quartiere alla corruzione e la definitiva sconfitta delle milizie jihadiste, devono passare dalle parole ai fatti. In effetti, la nuova leadership ha un compito assai arduo. Da una parte deve cambiare radicalmente un Paese fortemente diviso dal punto di vista etnico, politico, sociale, economico e religioso, ormai corroso dalla crescita esponenziale del brigantaggio interno e dalla violenza settaria. Dall’altra, si trova comunque di fronte all’impossibilità di agire senza minare quel delicato sistema di pesi e contrappesi che in questi anni ha scongiurato un conflitto interetnico e interreligioso che avrebbe portato la Nigeria al dissolvimento. Ecco che allora Buhari, per poter realizzare quanto promesso in campagna elettorale, senza far precipitare la Nigeria nell’anarchia, deve, per così dire, ripulire il palazzo del potere. È proprio nei meandri della politica nigeriana che si concentrano le complicità. Questo concretamente significa riportare la legalità nella pubblica amministrazione, regolare il business dell’oro nero dove si appuntano gli appetiti stranieri (quelli delle multinazionali e delle Petromonarchie salafite del Golfo) e fare piazza pulita dei corrotti nei ranghi delle Forze armate e dell’intelligence. Questi sono i presupposti necessari per vincere la battaglia contro il terrorismo jihadista. Finora, l’attenzione degli analisti, si è sempre concentrata sulle crudeltà perpetrate da Boko Haram. Ciò non toglie che sarebbe un errore prospettico considerare il terrorismo islamico nigeriano come una questione a sé stante. Nonostante Boko Haram abbia causato la morte di 14/15 mila persone e generato un milione e mezzo di profughi, esso rappresenta solo un sintomo – sicuramente il più doloroso e inquietante – dei problemi interni della Nigeria. Ma non la causa.