Opinioni

Paralimpiadi. Oltre i trionfi, la tenace lezione di quei nuovi maestri di vita

Elisa Manna mercoledì 22 settembre 2021

Ora che gli echi del clamore per lo spettacolare trionfo paralimpico degli atleti italiani e, in particolare, delle tre atlete italiane (Ambra Sabatini, Martina Caironi e Monica Graziana Contrafatto) si sono esauriti, forse vale la pena di riflettere sul significato più generale di questo evento sportivo, provando ad analizzarlo da un diverso punto di vista: non sul piano sportivo delle performance e dei record, non su quello biografico delle pur assai interessanti storie personali delle campionesse, ma su quello collettivo, antropologico. Vale a dire provare a capire cosa può significare per la società, per tutti noi, per questa nostra complicata convivenza globale.

Può un evento sportivo eccezionale portare cose buone a un’intera società? Sì, lo può, se ne sappiamo cogliere i significati più profondi. Perché abbiamo bisogno urgente di modelli nuovi che ci indichino strade nuove, di mondi incarnati dove circoli la possibilità di una ritrovata fraternità. C’è stato, in quest’evento, qualcosa di straordinario, di 'esterno' alle nostra povere logiche quotidiane, incapaci di farci alzare lo sguardo e le vele verso orizzonti nuovi. Come un vento benefico che incoraggia verso il futuro, come se le campionesse paralimpiche fossero, per dirla con il grande cantautore Franco Battiato recentemente scomparso, «avanguardie di un altro sistema solare».

Siamo, è bene sottolinearlo ancora, in un frangente della Storia in cui la cultura umana, pur nelle sue diversissime manifestazioni, denuncia una stanchezza, una fragilità, un’incapacità di farsi prospettiva, sentiero chiaro verso il quale andare. Anche da qui nasce la facilità con cui interessi occulti manipolano valori e disvalori; anche da qui gli inquietanti trasformismi che proliferano e si moltiplicano sotto diverse latitudini. Servono parole nuove che sappiano andare in risonanza nell’animo dei contemporanei. Perfino il cristianesimo, luce di vita per milioni di persone, ha bisogno delle nuove parole «di donne e uomini, cristiani e no, che spiegano alla Chiesa il suo stesso Vangelo con parole che parlano di diritti umani, di rispetto, di uguaglianza di fraternità», come ha scritto Luigino Bruni con straordinaria efficacia su queste stesse pagine («Liberiamo i figli dai demoni», 5 settembre 2021). Ebbene sì, ci sono mondi vitali che hanno tanto da trasmetterci, da insegnare.

Mondi spesso silenziosi, in cui la vita cresce e migliora ogni giorno, ma che restano appartati, come se fossero in un universo parallelo. Mentre noi abbiamo bisogno di iniezioni di fiducia, di speranza incarnata, di persone reali che agiscano spinti da nobili motivazioni, o più semplicemente, dalla voglia di giocarsi la vita fino in fondo, senza tremori, senza reticenze; esperienze dolorose, traumatiche che diventano fari raggianti di energia e speranza. La schermitrice Bebe Vio, Alex Zanardi e tanti altri sono stati e sono esempi luminosi, forti oltre l’immaginabile. Ma dunque cosa possono insegnare, sul piano valoriale, le vittorie paralimpiche? Intanto, un rapporto diverso e più equilibrato con la tecnologia, in cui quest’ultima è al servizio dell’uomo e non viceversa, in cui essa è solo uno strumento ad adiuvandum (per quanto necessario e insostituibile) e non un sistema cui adeguarsi. Una tecnologia che si fa protesi fantascientifica nella sua meravigliosa efficienza.

E poi, sul piano della qualità dei rapporti umani, quella straordinaria complicità, stima e ammirazione reciproca che le tre campionesse italiane dei cento metri manifestavano chiaramente durante la cerimonia del podio integralmente azzurro, al posto della competizione conflittuale che spesso si deve registrare negli incontri sportivi dei cosiddetti atleti normodotati, spesso inconsapevoli cultori di un narcisismo involontario. Una competizione vissuta in un modo totalmente diverso, che qui diventa pura gioia di surclassarsi, di superare un limite, di progredire. Aspirazione a nuovi record; e va benissimo anche se a raggiungerli sono gli altri (le altre, in questo caso). Ma non si tratta solo di guardare alle figure eccezionali tra i portatori di disabilità prendendole a modello: il mondo della disabilità, che in questa nostra convivenza è spesso associato a un’idea, nel migliore dei casi, di commiserazione ('poveretto!') è fatto di donne e uomini che ogni giorno costruiscono la loro vita, che della loro limitazione fanno un’occasione di crescita umana, di ragazzi e ragazze che, per esempio, si impegnano a fondo e con amore in una disciplina sportiva senza raggiungere traguardi paralimpici e notorietà, ma tessendo ogni giorno una rete di relazioni generative, con allenatori, fisioterapisti, compagni di strada.

I tanti, oscuri eroi che ritrovano quotidianamente la voglia di vivere in serenità, simpatia, spesso anche con tanta autoironia. E questo richiede inclusione vera, non leggi speciali, come giustamente titola 'Avvenire' del 12 settembre 2021 a proposito di un recente intervento della ministra per la Disabilità. C’è un intero mondo che ogni giorno affronta difficoltà che noi cosiddetti normodotati neanche immaginiamo. «Spesso la mattina, quando mi sveglio non ricordo di avere la mia malattia», mi confidava un uomo con un’importante disabilità motoria. E con un sorriso complice e grande gioia faceva un cenno al bagnino che l’avrebbe aiutato, di lì a poco a dimenticare la sua menomazione. Nell’acqua trasparente del mare.