Opinioni

La scelta chiave, le difficoltà, le attese. Non tempo supplementare

Marco Tarquinio giovedì 5 settembre 2019

È un volto di donna che disegna con più nettezza i lineamenti del secondo Governo della XVIII Legislatura repubblicana. Il volto di Luciana Lamorgese. Non se ne abbiano a male gli altri ministri e le altre ministre della rivoluzionata compagine del Conte Secondo, ma lo stile del precedente inquilino del Viminale ha così "segnato" i quindici mesi del Conte Primo che la nomina limpida e "tecnica" di Lamorgese alla guida dell’Interno assume un potente significato politico.

Certo ciò che salta agli occhi degli italiani e in giro per il mondo è il brusco cambio di colore dell’esecutivo che al timone ha ancora e sempre Giuseppe Conte. Un Governo fortemente voluto dai "duellanti di ieri" Beppe Grillo (garante-regista pentastellato) e Matteo Renzi (che per questo ha smontato il suo stesso "catenaccio" anti-grillino) e che è stato costruito con fatica e tensione da Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti secondo l’impeccabile ritmo imposto da Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica si è preoccupato di garantire una scelta chiara e utile al Paese: soluzione rapida e solida alla crisi pretesa e aperta nel cuore di agosto da Matteo Salvini oppure immediato ritorno alle urne per garantire comunque una responsabile manovra di bilancio per un Paese che non può permettersi di languire tra stagnazione e arrabbiato scoramento. Un cambio di colore che il vistoso passaggio cromatico dal giallo-verde al giallo-rosso dichiara eppure non dice del tutto, perché il salto è davvero forte: uno dei governi più "di destra" sulla scena europea muta decisamente orientamento e diventa – parola di Grillo, e non solo – un’alleanza di segno progressista e green. Tutto un altro "verde". Ecosostenibile. Un verde che oggi ha qualcosa a che vedere con quello padano della Lega di governo (del territorio), e niente con quello sempre più scuro che Salvini in questi anni si è impegnato – senza riuscirci del tutto – a tramutare nel molto votato e per nulla compassato "blu" nazional-sovranista della Lega di barricata continua. Sì: tutto un altro verde, almeno in questa fase. Domani chissà.

Certo, salta pure agli occhi che Conte stavolta entra in scena in splendida solitudine, ovvero senza i due commissari politici che gli erano al fianco il 1° giugno 2018 e senza l’obbligo di riservare altrettante stanze a Palazzo Chigi per quei consoli-guardiani con galloni da vicepremier. Colpisce anche che il ruolo più forte del premier sia enfatizzato dalle pari responsabilità ministeriali dei neo-alleati programmatici del M5s (10 dicasteri) e di centrosinistra (Pd 9, Leu 1). Ma colpisce appunto di più – e, francamente, piace e convince – che perda colore e ritrovi ruolo proprio il Ministero più delicato, ideale primus inter pares e non ventunesimo della lista: l’Interno. È qui che si deve garantire libertà, legalità e sicurezza per ogni cittadino e ogni persona che sta sulla terra e sul mare d’Italia. Lo guiderà da stamattina una "servitrice dello Stato" di lungo corso, una signora prefetto che non ha simboli di partito da esibire al bavero o comizi quotidiani da tenere, e che le divise è abituata a lasciarle agli uomini e alle donne che ha coordinato con stile ed efficacia per tutta la sua vita professionale e di cui ora sarà alta responsabile politica. Nel passaggio così delicato in cui siamo immersi (e nel quale per di più si annunciano legittime e infuocate manifestazioni di piazza di un grosso pezzo dell’opposizione), la de-partitizzazione del Viminale appare cosa buona e giusta. Come una sorta di disintossicazione, che può far davvero bene a un Paese eccitato da una continua campagna elettoral-propagandistica e che, invece, ha bisogno di più pacatezza, di più verità, di più giustizia, di rigore eguale per tutti (ministri compresi) e di serenità. Una disintossicazione che può far bene all’intero Governo, nel quale è importante che ognuno abbia chiaro, con la portata del potere da esercitare, il senso del dovere e del limite.

Strumenti essenziali per servire più che per servirsi, e per dedicarsi a fare il proprio mestiere e non guerre di conquista di spazi di responsabilità (e, speriamo, di competenza) altrui.

Detto questo, è altrettanto certo che la strada davanti al nuovo esecutivo è in salita. Nulla sarà facile, nulla è già scritto. Sebbene non sia è un mistero che questa coalizione punta a sperimentarsi a lungo e, indubbiamente – vedremo se ci saranno forza e lucidità – traguarda al momento solenne e delicato della scelta del successore del presidente Mattarella al Quirinale. La scelta di stilare un condiviso e suggestivo programma e non un 'contratto' semirigido aiuterà forse a stemperare gli attriti (accentuati dalle incrostazioni lasciate dalle reciproche contumelie di anni). O forse, al contrario, quegli attriti accentuerà. Lo sapremo presto. Ma se accadesse il peggio, se cioè già nella costruzione della Manovra per il 2020 scoppiassero, com’è ben possibile, guerre e guerricciole, se le intemperanze e le presunzioni di questo o quel pasdaran (che ci sono in ogni partito, e imperversano per agenzia e sui social) provocassero tensioni e spaccature (anche su temi di coscienza), se insomma dopo quest’alba giallo-rossa cascassero il cielo, le stelle e le tenaci foglioline di ulivo, allora questa decisione di dar vita al Conte Secondo si rivelerebbe uno stupido azzardo. All’Italia e agli italiani serve infatti una fase davvero nuova, non un tempo supplementare della partita giallo-verde ingloriosamente conclusa da quella che Salvini credeva fosse una trionfante e rabbiosa palla in tribuna e invece era un decisivo autogol.

Non è il caso di ripetere qui, oggi, le urgenze che nelle ultime settimane su queste nostre pagine abbiamo richiamato e illustrato a più firme e diverse sensibilità, ma con medesima profondità e accuratezza. Sono economiche e lavorative, ambientali e infrastrutturali, educative e sanitarie, di politica estera, nonché – come si è appena ricordato – di stile nell’esercizio del potere e della stessa, pur naturale e necessaria, diatriba politica. Ma su almeno due di esse pare giusto tornare sia pure in poche battute.

Prima di tutto c’è la questione familiare. Dopo chiacchiere infinite, è l’ora di fatti tangibili. L’assegno unico per il figlio che il Forum delle famiglie sollecita e che tutti, a parole, dicono di volere sarebbe finalmente, pur nella fatica attuale degli equilibri di bilancio, un serio e prezioso messaggio di fiducia alle famiglie giovani e numerose e a chi desidera metterle su.

E subito dopo c’è il disarmo di parole e gesti sul fronte delle migrazioni e dell’impegno umanitario. Deve finire il feroce can can a cui abbiamo dovuto assistere, che i più deboli hanno subìto e che ha avvelenato pensieri e occhi di troppi italiani: calci (e porte e porti chiusi) ai poveri, e infamanti schiamazzi in faccia a chi si occupa di loro, italiani e stranieri. Sì, deve finire tutto questo. Finisca la guerra contro la solidarietà. Da oggi conta immensamente ciò che si farà, ma anche ciò che non si farà più.