Opinioni

La speranza con cui entrare nel 2022. Non possiamo accontentarci

Gianfranco Ravasi domenica 2 gennaio 2022

«Anno: Periodo fatto di 365 delusioni». Così recita la voce 'Anno' nel sarcastico Dizionario del diavolo, opera di uno scrittore, giornalista e vagabondo statunitense, Ambrose Bierce di cui si ignora con precisione la data della sua scomparsa, forse nel 1914, sui campi di battaglia della guerra civile messicana. La frase è ovviamente provocatoria e ha forse il merito di smorzare la retorica degli auguri di rito, le illusioni della propaganda pubblicitaria e politica e persino l’enfasi di una religiosità solo consolatoria.

È, invece, necessario inoltrarci sul terreno sassoso dei giorni e delle opere con uno sguardo meno trasognato e con progetti più realistici. Detto questo, guai però a seguire una deriva pessimistica, alimentata anche dalla marcia incessante della pandemia e dalle crisi sociali. Infatti, quando la bufera si sarà placata, non sapremo come siamo riusciti ad attraversarla e neppure se sia cessata davvero. Ci sarà, comunque, una certezza: usciti da quella tempesta, non saremo più gli stessi di quando vi siamo entrati. Guai, allora, a estinguere dal cuore ogni desiderio e attesa, a spegnere ogni sogno: si perderebbe la voglia di vivere e si strapperebbe dall’anima il seme della felicità. A scavare in profondità nella società, si allarga invece l’area dell’indifferenza rassegnata, riguardo alla quale papa Francesco ha coniato il folgorante motto della «globalizzazione dell’indifferenza».

Essa è paradossalmente più estesa di quella sanguinaria della violenza mai sazia di vittime, delle tragedie dei migranti nel nostro mare, «cimitero senza lapidi», oppure delle brutalità contro le donne e i bambini.

A dominare nell’orizzonte grigio di questa superficialità amorfa c’è qualcosa di più radicale, ed è la caduta dell’attesa nel futuro: al massimo ci si affida alla tecnica, alle mirabolanti ipotesi dell’intelligenza artificiale, alle date illusorie, sempre più dilazionate, dei vari Kyoto, Parigi, Glasgow riguardo al 'futuro' del nostro pianeta. Qualche mese fa mi è capitato tra le mani il romanzo La clé USB (e il titolo è emblematico) di Jean-Philippe Toussaint, apparso nel 2019 a Parigi. Il protagonista osservava che «pur con l’eccellenza degli strumenti di cui disponiamo, l’avvenire non può essere predetto. Come possiamo predire qualcosa che ancora non esiste?». E riconosceva con realismo che il futuro è «semplicemente un cielo immenso percorso da un vento mutevole, ora calmo, ora tumultuoso, resistente alle previsioni».

Nonostante questo, dobbiamo ripeterci che è possibile far crescere e far germogliare sotto quel cielo un seme, classificato con un termine poco praticato, la speranza. Era stato Cristo stesso a ricorrere a quell’immagine vegetale per descrivere il regno di Dio da lui inaugurato: «Il seme germoglia e cresce… Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Marco 4,27-28). Come ha insegnato anche un filosofo non credente, Ernst Bloch, col suo Principio speranza, le religioni, la cultura, l’impegno sociale e umanitario dovrebbero essere come una spina nel fianco dell’umanità torpidamente indifferente o china solo su un presente modesto o su una realpolitik egoista.

Una delle più felici rappresentazioni della forza della speranza, la seconda delle virtù teologali, è stata delineata da un altro noto scrittore francese, Charles Péguy, che a questa virtù ha dedicato un intero poemetto. Egli la definiva la «sorella più piccola» delle altre due maggiori, la Fede e la Carità.

Ora, accade spesso ai bambini – quando i loro genitori si attardano a chiacchierare per strada con una persona incontrata o si fermano a guardare le vetrine – che essi li strattonino per procedere oltre. La Fede ha bisogno di non sterilirsi nel devozionale o di rinchiudersi nell’oasi del sacrale, ma deve progredire in conoscenza operosa e in autentica spiritualità, mentre l’Amore deve andare oltre il sentimento e cercare nei volti delle persone affamate, assetate, straniere, malate, prigioniere, nude il profilo stesso di Cristo (Matteo 25). È la Speranza a infondere questa spinta. È, allora, necessario immettere un fremito nelle coscienze, un invito a superare la porta blindata dei nostri appartamenti, segno dell’isolamento protettivo e delle paure talora anche legittime, per avviarsi oltre il proprio piccolo mondo verso le «periferie esistenziali» ove ha residenza una folla di solitudini.

Scriveva un famoso teologo, Jürgen Moltmann, nel suo saggio Teologia della speranza( 1964): «Chi spera in Cristo non può accontentarsi della realtà data, ma comincia a soffrirne e a contraddirla. La speranza spinge l’uomo al rifiuto di accontentarsi », contestando l’acquiescenza al male e all’ingiustizia. Il cristiano, pur ammirando Ulisse che insegue la patria perduta nell’orizzonte del passato, si unisce alla tribù pellegrina di Abramo che «partì senza sapere dove andava», perché non aveva «quaggiù una città stabile ma andava in cerca di quella futura» (Ebrei 11,8; 13,14), le cui fondamenta vengono però erette già nel terreno dei giorni e delle opere presenti, anche dell’anno che è appena iniziato.