Opinioni

Sanguinoso inizio di una "terza intifada". Lo stallo atroce

Giorgio Ferrari mercoledì 19 novembre 2014
Non vi è giustificazione possibile per il criminoso atto di barbarie commesso ieri mattina da due militanti legati al Fronte nazionale di liberazione della Palestina, che hanno fatto irruzione con armi da fuoco e mannaie in una sinagoga nel sobborgo di Har Nof a Gerusalemme uccidendo quattro rabbini israeliani e ferendone altri nove, di cui due versano in condizioni molto gravi. Nessuna ideologia, nessun afflato irredentistico, nessuna istanza politica o pseudo-politica può giustificare il gesto disumano di aggredire persone inermi in un luogo di culto, quale che sia il credo a cui appartengono.Gli squilli di giubilo che si sono levati dai quartieri generali di Hamas, i dolciumi distribuiti per le strade di Gaza in segno di festa, il dubbio onore delle armi tributato dal Fnlp agli autori della strage – i giovani cugini Ghassan e Ouday Abu Jabal –, la tiepida condanna del presidente Abu Mazen, così flebile a cospetto dell’onda di travolgente indignazione che l’eccidio ha suscitato in ogni angolo del mondo: tutto ciò non fa che confermare quanto sia lontana la prospettiva di una soluzione di pace condivisa in quel lembo martoriato di terra. Fino ad oggi gli israeliani hanno preferito non dirlo apertamente, se non nell’intimità delle proprie case, ma di ora in ora si fa tristemente più chiara l’evidenza di una Terza Intifada. La prima scoppiò nel 1987, quando un camion guidato da un colono israeliano travolse due taxi collettivi nel campo profughi di Jabaliya e quattro palestinesi rimasero uccisi. La seconda esplose nell’anno Duemila, dopo che l’allora capo dell’opposizione Ariel Sharon attraversò provocatoriamente la Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Stavolta ad accendere la miccia della rivolta sono stati quelli che Hamas e Fatah definiscono sbrigativamente "lupi solitari" e dei quali il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth traccia un esemplare identikit: ragazzi di vent’anni, celibi, disoccupati, che si abbeverano alla propaganda che Hamas e Jihad disseminano sui social network e sui loro organi di informazione. Ma quel fuoco che cova sotto la cenere può facilmente trasformarsi nell’incendio che molti temono. La stessa Hamas non si tira indietro: «Siamo alle porte di una vera e propria Intifada innescata da Gerusalemme, dai fatti di al-Aqsa e dagli insediamenti  dei coloni», dice l’alto esponente Mousa Abu Marzouq. Da Tel Aviv non giungono segnali di conciliazione: il presidente Ruvi Rivlin (storico esponente del Likud, discendente da una famiglia di talmudisti lituani) non fa mistero del suo radicalismo fortemente ideologizzato, contrario a ogni costo all’ipotesi di una soluzione del conflitto israelo-palestinese con la creazione di due Stati. Un recente sondaggio condotto in Israele gli dà ragione: il 74,3% delle persone interpellate è contrario alla creazione di uno Stato palestinese lungo i confini del 1967, il 74,9% si è detto contrario a uno Stato palestinese che comporti il ritiro di Israele dalla valle del Giordano e il 76,2% a uno Stato palestinese che comporti una divisione di Gerusalemme. Ma il crescere giorno dopo giorno della tensione, lo svanire progressivo della proverbiale tolleranza degli ebrei gli fa dire anche, come riferisce David Remnick sul New Yorker: «È tempo di ammettere onestamente che la società israeliana è malata e che è nostro dovere curare questa malattia».Ma possono davvero Benjamin Netanyahu e Abu Mazen disinnescare questo brulicare di terroristi fai-da-te, araldi di una guerriglia asimmetrica quanto imprevedibile? Può davvero Hamas – gruppo politicamente isolato, ma più d’ogni altra cosa interessato a mantenere il controllo di Gaza – contribuire a una soluzione pacifica del conflitto? Può una società israeliana che sta di nuovo conoscendo l’insicurezza, l’esasperazione e l’incertezza del domani accettare il rischio di aprire la strada a uno Stato palestinese? «La questione palestinese – fa notare con mesta metafora Amos Oz, uno dei giganti della letteratura israeliana – ci accerchia da ogni lato». Ed è in questo stallo perpetuo che s’insedia imperioso il dovere delle grandi democrazie, dell’Unione Europea, dell’America, del nostro stesso Paese di contribuire con sollecitudine alla ricerca di una soluzione. Senza perdersi d’animo e sapendo che, da soli, tutti quegli attori che si agitano invano sul tragico palcoscenico della Terra Santa non ce la faranno mai.