Opinioni

Francesco ai preti di Roma. La cura essenziale

Riccardo Maccioni venerdì 7 marzo 2014
È il tempo della misericordia. Di occhi che si fermano a contemplare la Croce, di dita che scorrono sui grani del Rosario, di ginocchia che si piegano, di cuori che si aprono all’ascolto. Parlando ai parroci romani ieri il Papa ha raccontato la bellezza di una Chiesa con le porte aperte, che scende nelle strade degli ultimi, dove il prete è vicino alla gente e servitore di tutti. Perché chi vive di fede non può che essere esperto di umanità, capace di piangere con chi soffre, vicino a chiunque chieda aiuto, pronto a commuoversi come Gesù.Ecco allora che torna l’immagine della Chiesa ospedale da campo, quasi un pronto soccorso dell’anima per l’umanità ferita: dalla mancanza di lavoro, dagli scandali, dalle illusioni del mondo, dalla sofferenza che consuma la speranza. Piaghe, malattie che si curano con la medicina della misericordia, terapia per chi torna a casa dopo troppo tempo passato lontano, con il desiderio di sentirsi accolto e insieme la vergogna dei propri errori. Riconciliare, fare pace con il Sacramento ma anche con le parole e le opere, è questo il mandato per una Chiesa con le braccia aperte, che come Cristo cerca i suoi amici nei sentieri stretti e sporchi, tra i giovani abbandonati, nei poveri più poveri, in mezzo alla gente rifiutata da tutti. È curioso, osserva Francesco, ma il posto in cui più facilmente si poteva trovare Gesù era la strada. «Poteva sembrare che fosse un senzatetto», aggiunge il Pontefice. E il pensiero diventa allora esame di coscienza, ci domanda come reagiamo di fronte a chi chiede l’elemosina all’angolo della via, se siamo capaci di condivisione o fuggiamo via impauriti. Perché rifiuto è anche girare la faccia dall’altra parte, evitare che due mani si intreccino, giudicare la persona che non conosciamo. Come Gesù sulla strada invece, dobbiamo essere capaci di compassione, nel piccolo recinto familiare come in parrocchia e poi via via, allargando l’orizzonte, verso lo straniero nel campo profughi o le popolazioni di cui a malapena conosciamo il nome. Perché, a dispetto di ricchezza e posizione sociale, ciascuno di noi è un senzatetto in cerca di timone. E per ritrovare la strada di casa non basta fare carriera, non serve neppure moltiplicare i titoli accademici ma c’è bisogno di aprire le finestre del cuore. Bisogna trovare il coraggio di rinunciare a se stessi e accettare l’amore di Dio e dei fratelli, compresi i più distanti e antipatici. Tante volte allora per guarire, serve l’oscurità di un confessionale e il volto buono di un sacerdote. Elegante o stropicciato, colto o ignorante delle cose del mondo non conta, purché conosca il cuore di Dio e sia capace di carità, che vuol dire farsi carico dell’altro, ascoltarlo, accompagnarlo nel cammino della riconciliazione. Il modello da seguire è quel confessore sacramentino di cui Papa Francesco conserva da anni la croce del Rosario, proprio vicino al cuore, cui chiede sostegno quando vengono "cattivi pensieri verso qualcuno". È la sua carità, la capacità di curare con la grazia le ferite del fratello, di chinarsi sulla sua sofferenza, di regalargli una carezza. Perché la forza di un sacerdote, di un parroco è sapersi commuovere, è "portare i pantaloni", cioè lottare con il Signore per il proprio popolo come faceva Mosé, è saper perdonare con il cuore di Dio. Ogni giorno infatti, a tutte le latitudini, è sempre tempo di misericordia. La medicina che cura le ferite più profonde dell’uomo, la bussola che illumina il buio della sua solitudine e che gli fa ritrovare la strada di casa.