Opinioni

Viaggio-simbolo in nome dell'unità. La città da ricominciare

Marco Impagliazzo sabato 6 giugno 2015
Papa Francesco compie oggi a Sarajevo un viaggio-simbolo. È un viaggio in uno spazio tutto particolare, quello lacerato dei Balcani, segnato dalla difficoltà del convivere tra diversi. È un viaggio nel tempo, nella città dove scoppiò la scintilla che accese l’incendio della guerra mondiale di cui abbiamo da poco ricordato il centenario, e successivamente cuore tragico della guerra iniziata nel 1992. Il Papa non teme di chinarsi sulle ferite di una città-simbolo.Sarajevo è una delle città europee e mediterranee che ha vissuto per secoli la realtà della coabitazione tra popoli e religioni differenti e, a partire dalla guerra balcanica degli anni Novanta del secolo scorso, ha subìto una grave frattura nella sua secolare storia di coabitazione. Sarajevo è stata, forse, l’ultima città multiculturale a “cadere” nel corso del Novecento. Ci dà quasi il senso della fine di un processo di rottura e di omogeneizzazione delle popolazioni iniziato con la prima guerra mondiale che ha toccato via via varie realtà del Mediterraneo sud orientale e dei Balcani.Detta una volta la «Gerusalemme d’Europa» per la compresenza tra i suoi vicoli delle tre religioni monoteiste, è oggi lo specchio della complessità del vivere insieme. Il visitatore vi scorge ancora moschee, chiese, sinagoghe, le une vicine alle altre, ma il tessuto umano è profondamente mutato nei decenni post-jugoslavi. La Sarajevo che oggi incontra papa Bergoglio è una città quasi tutta musulmana, capitale di una Repubblica formalmente unita, ma per tanti aspetti drammaticamente divisa, con i serbi ortodossi raccolti nella Republika Srpska, i croati cattolici concentrati in Erzegovina e i musulmani, appunto, compatta maggioranza nella Bosnia centrale. I non musulmani emigrano, soprattutto i cattolici (diminuiscono di 3mila l’anno, sono ormai poco più di 400mila in tutto il Paese). Ma i dati sono ufficiosi, in un contesto così delicato anche i risultati dei censimenti non vengono resi pubblici, perché potrebbero mettere in discussione una già troppo fragile pace.Nella Bosnia-Erzegovina uscita dagli accordi di Dayton (1995) tutti continuano a vivere i postumi della guerra. Ma se i cittadini musulmani e ortodossi hanno più punti di riferimento interni, i cittadini cattolici rischiano di guardare solo all’estero. Del resto, perché restare? La disoccupazione produce frustrazione nelle nuove generazioni, mentre i non musulmani vivono sottili discriminazioni sul lavoro, nell’amministrazione della giustizia, nella fruizione dei servizi. Eccoli allora dirigersi verso la Croazia, la Germania, gli Usa, nonostante i non pochi tentativi di riannodare un dialogo fra gruppi diversi e però figli di una stessa terra, nonostante il sogno di convivenza tenuto vivo dall’arcivescovo, il coriaceo cardinale Puljic, testimone del lungo assedio subito dalla città tra il 1992 e il 1995.In Bosnia è ben visibile la tragedia dei meccanismi identitari e delle derive etniciste. Tutto è ingessato in un fermo immagine che esclude quel dinamismo che è frutto dell’incontro con l’altro. Sarajevo è una sorta di paradigma di quel che può accadere quando ci si divide. Ma se è dallo «scarto che Dio tira fuori la salvezza» (omelia di papa Francesco, 1 giugno a S. Marta), proprio da questa città-martire per la rottura del vivere insieme può sgorgare uno spirito d’incontro. Questa la scommessa del Papa: dal fallimento dello scontro alla speranza dell’incontro. Quell’incontro che resta l’unica strada possibile di fronte a contesti bloccati, se non ci si vuole arrendere e lasciar perdere. Perché il mondo è complesso, la gente è spaesata, tanti rischiano di cercare la propria identità nella violenza. Ma è vero anche che i popoli anelano alla pace, che ognuno sogna un futuro di convivenza e di bene.Nel messaggio inviato da Francesco, alla vigilia del viaggio, alla comunità cattolica di Bosnia ed Erzegovina si coglie la cifra della visita papale, il sostegno al «dialogo ecumenico e interreligioso», l’incoraggiamento alla «convivenza pacifica» nel Paese. «Vengo come messaggero di pace per annunciare la misericordia di Dio, […] esprimendo a tutti – a tutti! – la mia stima e la mia amicizia». Nell’occhio del ciclone delle guerre etniche europee, il Papa scommette sulla forza della tenerezza e del perdono, sulla misteriosa forza di uno Spirito capace di rinnovare la faccia della terra.