Opinioni

Opinioni e regole in democrazia. I limiti porosi da rispettare

Mauro Magatti martedì 22 agosto 2023

Un generale che pubblica un libro su temi delicati con posizioni provocatorie e, in qualche passaggio, decisamente inopportune. In poche ore – per ragioni non del tutto chiare (come mai un testo – peraltro autoprodotto – ha avuto immediatamente eco sulla stampa e sui social) – il libro diventa un caso e scoppia la bufera.

Esponenti politici di primo piano si scagliano contro Vannacci accusandolo di istigazione all’odio, all’omofobia, al razzismo. La rete si scatena e le posizioni si polarizzano. Col risultato che l’intera opinione pubblica è ancora più disorientata e spaccata. Invece di contribuire a una riflessione sensata su questioni delicate che riguardano tutti, ci ritroviamo ancora più accaniti gli uni verso gli altri. Probabilmente, in queste ore, le aree dell’odio sociale si sono ampliate.

I due temi in questione – gender e differenze razziali (strettamente associate con la questione migratoria) – ci interpellano individualmente e collettivamente. Sono temi che avrebbero bisogno di un dibattito civile e non di uno scontro dove veniamo spinti a schierarci di qui o di là, come se fosse possibile dire semplicemente chi ha ragione e chi torto.

La sfera pubblica può essere pensata come un campo dove i cittadini, esprimendo le loro idee, partecipano a un gioco collettivo. Non esiste gioco che non rispetti delle regole, senza un minimo senso del fairplay, senza riconoscimento di un arbitro a cui spetta l’autorità di fischiare un fallo. Senza queste condizioni, il gioco degenera in rissa. Purtroppo, questa idea semplice l’abbiamo persa molto tempo fa. Prima con la televisione schiava dell’audience e poi con i social sregolati in cui si può dire e fare di tutto.

E tuttavia, è proprio da qui che bisogna ripartire: per governare la complessità in cui viviamo, invece del dialogo bellico – che contrappone e divide – serve un “dialogo dialogico” che, facendo emergere le ragioni di tutti, permetta alle opinioni di maturare e alle pratiche di non essere violente, in un senso o nell’altro. Partendo dalle vicende di questi giorni, proviamo allora a ridefinire almeno tre punti per evitare che la degenerazione del dibattito pubblico finisca per mettere a rischio la democrazia, e la civiltà.

In primo luogo, il confronto all’interno della sfera pubblica richiede misura. Non è possibile costruire un dialogo civile se gli attori in campo, a cominciare da quelli che ricoprono ruoli istituzionali, non esercitano quel senso di responsabilità derivante dalla loro posizione. C’è modo e modo di esprimere le proprie opinioni. Su questo punto il generale Vannacci ha commesso dei gravi “falli”. Quando ad esempio, riferendosi alla pallavolista Paola Egonu, parla (con espliciti pregiudizi razziali) di «tratti somatici che non rappresentano l’italianità» o quando rivendica «il diritto (!?) all’odio e al disprezzo». Non sono espressioni accettabili. E d’altra parte, il generale non poteva non rendersi conto di ciò che avrebbe scatenato.

In secondo luogo, viviamo in una società molto complessa. E la tolleranza, come capacità di riconoscere e rispettare la diversità, ne è un ingrediente essenziale. Immaginare un mondo omogeneo che corrisponda alle nostre idee è la strada che porta dritta dritta alla violenza.

Naturalmente la tolleranza ha bisogno di educazione e formazione, che prendono forma anche attraverso il dibattito pubblico. Tutti vanno richiamati a questa questione di metodo. Quanto più le persone sono abbandonate a loro stesse, strumentalizzate e usate come “massa di manovra”, quanto più è probabile che la conflittualità sociale si esasperi. È sconfortante vedere invece che, da destra e da sinistra, questo è quanto accade quotidianamente. Ma così si piccona la democrazia! Fermiamoci.

Infine, la tolleranza è bidirezionale. Il nuovo che cerca di affermarsi ha diritto di portare le sue ragioni.

Così come la tradizione ha diritto di affermare le proprie. Nessuno, però, può rivendicare di aver ragione “a prescindere”. Il principio di non discriminazione - che costituisce il cavallo di battaglia del pensiero progressista - non può tradursi in un grimaldello per far saltare qualsiasi limite. Una società senza limiti – cioè, senza definizioni, limitazioni, confini – non è mai esistita, non può esistere ne è desiderabile che esista. D’altro canto, il pensiero tradizionalista non può rispondere affermando limiti rigidi (intolleranze, razzismi, muri, etc.) che creano oppressione e violenza. Il problema (comune) che abbiamo è di valutare di quali limiti abbiamo ancora bisogno e come facciamo per renderli porosi, cioè meglio capaci di mettere in relazione le differenze e creare spazi di transizione e crescita comune. Vivere in una società complessa significa esattamente evitare le due posizioni contrapposte di chi immagina un mondo senza limiti e chi invece li vuole ricostruire in modo rigido (come ha scritto su queste colonne domenica Andrea Lavazza ). Né il libro del generale Vannacci né le reazioni scomposte che sono seguite aiutano ad andare in questa direzione.