Opinioni

Così la lettera del "Buon Samaritano". Curare sempre, abbandonare mai

Roberto Colombo mercoledì 23 settembre 2020

La Lettera della Congregazione per la dottrina della fede Samaritanus bonus, approvata da papa Francesco, che tratta i temi antropologici, etici e giuridici di "fine vita", è un documento molto rilevante per la completezza delle questioni affrontate, la ricchezza delle fonti, la robustezza delle argomentazioni e l’attualità dei problemi discussi. Si colloca nel solco della tradizione delle risposte, dichiarazioni e istruzioni della Congregazione che hanno preceduto, accompagnato e seguito i discorsi dei Papi e l’enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana. Di questa Lettera si sentiva da più parti la necessità: è stata sollecitata per aiutare pastori e laici (professionisti sanitari, ammalati, parenti, educatori e uomini politici) verso una autorevole chiarificazione e un discernimento del bene e del male di fronte a decisioni e azioni, procedure cliniche, controversie, giudizi etici e sociali, leggi e sentenze che si sono moltiplicati attorno al letto di degenza, talora contro la vita di neonati, bambini, ammalati, disabili, anziani e morenti.

Il cuore della Lettera è la netta riaffermazione della fondamentale distinzione medico-infermieristica, clinica, antropologica ed etica tra "curare" e "guarire", tra "prendersi cura" della vita integrale di un ammalato e "fare terapia" per sconfiggere o contrastare la malattia di cui soffre. La "cura", esemplificata evangelicamente dall’azione del buon samaritano (cfr. Lc 10, 29-37), è il primo e fondamentale, irrinunciabile atto del medico e dell’infermiere, che precede, accompagna e sostituisce (quando ogni altra azione clinica è inappropriata) gli atti di diagnosi, terapia e riabilitazione che non in tutti i casi portano alla "guarigione". Prendersi cura sempre della vita del malato e del disabile, cercare di guarirlo quando ciò è possibile, se i mezzi terapeutici (distinguibili formalmente e materialmente da quelli curativi) sono proporzionati nei loro effetti benefici e non causano sofferenze troppo gravose.

L’incremento dei mezzi terapeutici a disposizione, e la concentrazione del pensiero e dell’azione di medici e parenti su procedure e protocolli terapeutici di "successo", hanno progressivamente oscurato clinicamente ed eticamente la "cura degli inguaribili" (non tutte le malattie sono guaribili, ma tutti i malati sono curabili). La conseguenza, denunciata dalla Lettera, è che si è creata una nuova categoria di malati e disabili: gli «incurabili», quelli per cui non vale darsi da fare per assisterli in quanto segnati da una vita considerata «indegna» perché priva di salute e «qualità». Dalla giusta rinuncia alle terapie futili, che non giovano alla salute e configurano un inaccettabile «accanimento terapeutico», si è progressivamente passati – quasi impercettibilmente nella coscienza umana e professionale – all’abbandono della cura essenziale, quella che sostiene le funzioni fisiologiche indispensabili per la vita di un ammalato e di un sano, e allevia il dolore, favorisce le relazioni familiari e sociali ancora possibili e, per i credenti, sostiene l’animo nel suo elevarsi a Dio.

Con lo sguardo a situazioni e decisioni che hanno drammaticamente travolto la vita di piccoli ammalati e adulti gravemente disabili, e a protocolli clinici e leggi che istituzionalizzano e legalizzano simili procedure, la Lettera dichiara che «l’eutanasia è un crimine contro la vita umana», un atto «intrinsecamente malvagio in qualsiasi occasione e circostanza». Sono un inaccettabile male ogni forma di eutanasia e suicidio medicalmente assistito, anche quelle forme subdole (e per questo più facilmente spacciate come un bene per il paziente e un dovere per il medico e i congiunti) che passano attraverso la sospensione di idratazione e nutrizione, pur fisiologicamente appropriate per sostenete l’omeostasi corporea, e l’applicazione della sedazione finalizzata a provocare intenzionalmente la morte del malato. Contro ogni pratica eutanasica o di assistenza al suicidio, la Lettera ricorda il diritto e il dovere di sollevare la propria obiezione di coscienza, che come insegna la Gaudium et spes (16), nessun ordinamento democratico può negare senza fare violenza, al «sacrario dell’uomo».