Opinioni

Una stringente questione antropologica. Come fronteggiare l'aborto «dilatato»

Francesco d'Agostino sabato 31 agosto 2019

Il processo di legalizzazione dell’aborto, che possiede ormai, e da tempo, rilievo planetario, sta per conoscere un ’ulteriore dilatazione, geograficamente limitata, ma simbolicamente rilevante. Entro l’estate dovrebbero cadere i limiti giuridici alle pratiche abortive ancora esistenti nel più rilevante stato della Confederazione australiana, il Nuovo Galles del Sud (lo Stato dove insiste la città di Sydney) e nel Principato di Monaco, che attualmente consente l’aborto solo nei casi di malformazioni del feto, di rischi per la salute della donna e di stupro.

L’unico limite legale che dovrebbe rimanere è quello temporale, che consentirebbe l’interruzione della gravidanza solo nei primi mesi di gestazione. Le proteste della Chiesa cattolica e dei movimenti pro life non si sono fatte attendere, anche se è prevedibile che non riusciranno ad avere effetti concreti, come si può desumere dalla limitatissima rilevanza mediatica della notizia nei Paesi interessati e a livello internazionale e dal sostanziale consenso che essa ha riscosso in gran parte dell’opinione pubblica. Che tipo di commento meritano queste notizie? Fisserei l’attenzione su tre punti.

Primo punto: dobbiamo, con un grande – davvero grande – sforzo di onestà intellettuale, riconoscere il totale fallimento del pluridecennale impegno ontologico contro l’aborto, quello incentrato sul riconoscimento del nascituro come 'uno di noi' e sul conseguente dovere di rispettarne la vita. Parlo di impegno, non di argomento: che la vita del nascituro sia autentica vita umana nessuno oggi ha più il coraggio di negarlo. Ma, culturalmente, questo argomento ha ceduto di fronte all’opposto argomento che riconosce alla madre, alla sua salute e perfino ai suoi interessi un primato sulla vita del figlio prima della sua nascita. Per chi, come il sottoscritto, per anni e anni si è impegnato in una querelle ontologica è giunto il momento di riconoscere la sconfitta: una sconfitta, si badi, non ideale, non teoretica e meno che mai spirituale, ma una sconfitta storica.

Secondo punto: la fattuale legalizzazione planetaria dell’aborto ha sancito (sempre sul piano della storia) la marginalizzazione della figura del padre, cui è precluso ogni intervento in merito alla decisione abortiva della donna con cui ha generato un figlio. La simmetria uomo-donna permane nelle dinamiche generative solo a livello biologico, ma appare a livello sociale radicalmente misconosciuta. Di qui conseguenze facilmente intuibili a carico del matrimonio e della famiglia, che appaiono destrutturati, anche se sembrano conservare la loro identità storica.

Terzo punto: a fronte della drammatica crisi antropologica di cui la pratica dell’aborto è il segnale più evidente, ciò che si impone, oggi, è una completa riformulazione dell’impegno cristiano. Per quanto - ahimè - sconfitto sul piano storico-sociale (sul piano, cioè, della rigorosissima delimitazione giuridica dell’aborto) all’impegno cristiano resta uno spazio di azione pressoché sconfinato: quello chiamato a riproporre il primato dello spirituale sul sociale.

Le iniziative di aiuto materiale alla vita nascente sono nobilissime e non vanno abbandonate, ma non colgono più il centro del problema, che non è anche economico e giuridico, ma soprattutto antropologico. E la questione antropologica non va affidata o fatta gestire ai cultori di scienze sociali, ma a chi è in grado di predicare a testa alta il Vangelo, incarnandolo sino a dire sempre e comunque 'sì alla vita'. Il sì alla vita è molto più che un sì a un comandamento ('non uccidere!') è un sì al primato del bene sul male, di cui oggi sembra che quasi solo i cristiani – come Paola Bonzi, animatrice da decenni del Cav milanese della Clinica Mangiagalli, che stiamo ancora piangendo dopo l’improvvisa morte – siano i testimoni.