Opinioni

Le parole del Papa. Carceri: una norma per evitare il contagio

Mauro Leonardi lunedì 30 marzo 2020

Domenica al centro dell'Angelus di Francesco, c'era Gesù che piangeva e singhiozzava per la morte dell'amico Lazzaro. "Dio – ha rimarcato– non ci ha creati per la tomba, ci ha creati per la vita": e la tomba di cui parlava papa Bergoglio non era metaforica ma era il realissimo Covid-19 con le sue minacce di morte.

Pensando a ciò ieri il Santo Padre ha voluto ricordare i più poveri tra i poveri, ovvero i carcerati: la categoria della quale nessuno vuole parlare in questa emergenza coronavirus. Quanti sono i personaggi grandi e piccoli che hanno esborsato somme di denaro, anche grosse, per gli ospedali dei quali tutti sentiamo parlare? Somme ingenti, somme giuste, somme doverose. Ma chi dà denaro per chi si contagia in carcere? Eppure basterebbe riflettere un attimo per comprendere di quale grande necessità stiamo parlando. Cosa avviene in un istituto di pena quando arriva l'influenza? Che la prendono immediatamente tutti. Celle da sei con promiscuità assoluta, impossibilità radicale di tutte quelle misure prudenziali cui il governo obbliga, giustamente, noi cittadini liberi.

E così domenica il pensiero del Papa si è soffermato di nuovo e in modo speciale su tutte le persone che patiscono la vulnerabilità dell'essere costretti a vivere in gruppo: case di riposo, caserme, ma in modo particolare le persone delle carceri. "Ho letto – ha sottolineato – un appunto ufficiale delle Commissione dei Diritti Umani che parla del problema delle carceri sovraffollate, che potrebbero diventare una tragedia. Chiedo alle autorità di essere sensibili a questo grave problema e di prendere le misure necessarie per evitare tragedie future".

Poche ore prima, forse per mera coincidenza o forse no, era divenuto pubblico un appello alla società civile levato dai detenuti di Rebibbia. In esso, constatando l'evidenza per cui non possono essere rispettati i parametri di distanziamento disposti dal governo, si chiede una modifica legislativa che obblighi il magistrato di sorveglianza a concedere misura alternative di custodia in carcere, coerenti con le attuali circostanze di pandemia. Questo documento non propone nessuna rivoluzione ma si sforza di proporre una soluzione saggia che ha il coraggio di voler costruire: consapevoli che pochi giorni fa, gli istituti carcerari erano assunti all'onore della cronaca per episodi di rivolta con conseguenze tragiche che, a volte, avevano purtroppo anche compromesso vite umane.

La proposta di questo documento va proprio nella linea di diminuire quel sovraffollamento di cui parla il Pontefice. Non si tratta di "svuotare le carceri" come qualcuno ha riferito banalizzando: si tratta di portare a compimento un iter faticoso messo in atto da tutti gli attori della casa circondariale di Rebibbia, e con modalità analoghe in altri istituti italiani. "Si è fatto – racconta il documento – un lavoro enorme da parte della direzione del carcere e con essa dell’area educativa per istruire centinaia, se non migliaia di istanze per la richiesta di una misura alternativa come quella della detenzione domiciliare". Ma questo lavoro viene vanificato con ovvie ricadute negative sia sul fronte dei detenuti sia sul fronte degli impiegati dell’amministrazione penitenziaria che hanno prodotto sforzi che nel corso del tempo mai erano stati profusi.

"Gli sforzi – così recita il documento – vengono vanificati dall’inerzia di giudizio del magistrato di sorveglianza che incentra la sua attenzione sempre e comunque sul fatto originario che ha prodotto la condanna di espiazione". Ecco perché, visto che siamo in pandemia, ci vorrebbe un intervento del legislatore per rendere obbligatorio ciò che il regolamento considera solo opzionale. Perché l'emergenza nella quale si trova il Paese è vera e riguarda tutti: anche i dimenticati da tutti. Anche i carcerati.