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REPORTAGE. Iraq, i cristiani che non cedono

Luca Attanasio domenica 21 febbraio 2010
La mano assassina che da anni si accanisce impietosa sui cristiani d’Iraq non rispetta festività e, soprattutto, non conosce pausa. Nell’imminenza del Natale scorso, a Mosul, due persone sono rimaste uccise e cinque ferite a seguito dell’esplosione di un’autobomba piazzata davanti a una chiesa siro-ortodossa, mentre l’11 gennaio, sempre a Mosul, è stato freddato un cristiano assiro di 52 anni. La lista, purtroppo, si aggiorna di continuo: ieri si è aggiunta un’altra vittima dopo i 5 assassinati negli ultimi giorni.Mosul, l’antica Ninive, zona di presenza cristiana da millenni. Da queste parti, recita la tradizione, è giunto san Tommaso, che con un piccolo gruppo di discepoli fondò la prima comunità di fedeli in Assiria. Nell’antichissima chiesa omonima – Mar Toma – sono conservate le sue reliquie.Ora, è divenuta il simbolo della persecuzione dei cristiani. In questa zona, infatti, oltre alla radicata presenza nella città stessa, esiste una cintura di villaggi a maggioranza cristiana che cerca di resistere e rimanere nella propria terra, ma che dalla caduta di Saddam in poi vede scemare di mese in mese i suoi membri. Tantissimi da qui, così come da Baghdad, Basora, Kirkuk, fuggono terrorizzati all’estero o verso il Kurdistan iracheno. Altri vengono uccisi.Bastano le parole del vescovo siro-cattolico di questa martoriata città, monsignor George Casmoussa, e la visita alla sua residenza lo scorso dicembre, a fotografare nitidamente la realtà. Due guardie armate escono dal gabbiotto e solo dopo un colloquio con l’autista in lingua surèth, un’antica derivazione dell’aramaico, l’idioma di Gesù, parlata in Iraq solo tra cristiani, alzano la sbarra che dà accesso all’arcivescovado. «Lei per venire a trovarmi, ha dovuto passare vari check-point – sorride l’anziano presule – le nostre chiese sono presidiate. Siamo ormai una chiesa di diaspora ma non ci rassegniamo. La nostra presenza qui ha un senso profondo, siamo in diretta continuità con la Chiesa apostolica e vogliamo lavorare per la pace. Noi siamo iracheni, cristiani iracheni. Non cerchiamo protezione, ma che tutti ci considerino cittadini garantiti dalla legge e dalla millenaria convivenza». È la chiesa definita da Giovanni Paolo II «dei martiri, perché annovera il numero maggiore di testimoni fino all’effusione del sangue, della storia». Una schiera di eroi della fede che dalla caduta di Saddam in poi, ha precipitosamente ingrossato le proprie fila.Al tempo del regime, infatti, i cristiani, circa 1.000.000 principalmente appartenenti alle tre grandi denominazioni di Caldei (uniti a Roma), Assiri e Siri, avevano sempre goduto di una certa tolleranza, difesi in qualche modo anche dalla presenza nel governo del caldeo Tareq Aziz.La fine di Saddam Hussein ha scatenato contro di loro una persecuzione vera e propria. Dal 1 agosto 2004, quando scoppiò la prima bomba anti-cristiana contro la chiesa di Sant’Elia a Baghdad, fino a oggi, una serie devastante di attentati si sono succeduti in molte città e villaggi che ha portato il computo dei morti oltre la cifra di 1.500, senza contare feriti, rapimenti, ricatti, esodi forzati. Esercito del Mahdi, gruppi armati sunniti e sciiti o semplici bande di criminali comuni sono i tragici protagonisti di questo film dell’orrore che non conosce intervallo.Ora, i cristiani in Iraq, raggiungono a malapena la cifra di 400.000. «E sempre di più sono quelli che vengono in questa regione – mi spiega padre Rayan Atto, un giovanissimo quanto attivo prete caldeo, parroco di Mar Qardakh, al centro di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno – perché è l’unica di tutto l’Iraq in cui c’è pace e sviluppo». È vero. Nel paese dilaniato da guerre civili e violenze di ogni tipo, sorge un’isola di stabilità e pace relativa: il Kurdistan semi-autonomo. Con la sua fetta di 17% di petrolio nazionale e investimenti che derivano dalla situazione pacifica, il Kurdistan iracheno è di certo l’area di maggiore sviluppo di tutto il Medio Oriente, dopo Israele, e brucia tappe dopo tappe nella sua rincorsa verso parametri economici da primo mondo. Immigrati di molte provenienze rivolgono a questa regione la loro attenzione da ormai vari anni e, tra questi, moltissimi cristiani iracheni.Il presidente del parlamento, Kemal Kerkui, ostenta accoglienza: «Abbiamo già scritto nella nostra bozza di costituzione, che concederemo ai cristiani mini-autonomie nelle zone dove sono la maggioranza».«E noi, invece – riprende padre Rayan – rischiamo di rimanere decenni indietro. La nostra diocesi di Erbil sta divenendo la più numerosa e importante di tutto l’Iraq. Nel giro di quattro anni, i cristiani fuggiti da Baghdad, Bassora, e Mosul e giunti qui, sono passati da 8.000 a oltre 35.000. Ma da quando monsignor Yacoub Denha Scher è morto per cause naturali nel 2005, noi non abbiamo vescovo». Pastorale significa anche geografia umana, numeri, storie. Ma a vedere la situazione della Chiesa, almeno quella caldea, da Erbil, non si ha la sensazione che questi dati siano oggetto di profonda riflessione. Ad Ankawa, per fare un esempio concreto, cittadella cristiana della capitale curda, oltre ai tantissimi profughi, si è ormai trasferito l’establishment ecclesiastico: qui è stato spostato da Baghdad (e costruito) il nuovo seminario, si sono trapiantate diverse comunità di religiosi e religiose in fuga dalla persecuzione, c’è la facoltà teologica, e preti, suore, laici, sono pronti a rimboccarsi le maniche. Ma in tutta l’area c’è una sola parrocchia, non c’è un piano pastorale vero e proprio, e sono in molti tra religiosi e laici a lamentare un senso di abbandono.Stretta tra l’oppressione della persecuzione, le tante nuove esigenze pastorali, la sfida delle sette fondamentaliste protestanti, la cCiesa vuole riorganizzarsi. La tanto attesa nomina del nuovo vescovo di Mosul, che succede a Rahho, ucciso nel marzo 2008 dopo un drammatico rapimento, e arrivata lo scorso novembre, potrebbe segnare una positiva inversione di tendenza, sperano in molti, e rappresentare un nuovo inizio.Lo scalo ad Amman , di rientro a Roma, offre l’inaspettata sorpresa di centinaia di uomini e donne vestiti di bianco che tornano dal pellegrinaggio alla Mecca. L’aria è decisamente rilassata, se non festosa: l’obbligo di recarsi in pellegrinaggio sui luoghi del profeta almeno una volta nella vita è stato compiuto e ciò sembra aver prodotto un compiacimento spirituale generalizzato. Il volo per Roma è una macchia bianca di immigrati islamici che tornano in Italia. Accanto a me siede un signore magrebino sulla sessantina che parla un delizioso italiano. Si scherza di calcio e di cibo. «Siamo stati alla Mecca e a Medina – l’uomo torna riflessivo – per me è stata un’esperienza spirituale profonda; chi fa prevalere il lato trascendente nella propria esistenza, saprà portare pace a chi gli sta attorno».Mi volto e dal finestrino scorgo la piana di Amman e, in lontananza, il martoriato Iraq. Mi incanto per un momento e medito le parole del mio compagno di viaggio. È forse il modo migliore per tornare a casa da questa meravigliosa quanto straziante esperienza in Iraq. Con una speranza in più.