Economia

Coronavirus. Il debito globale sta esplodendo

Pietro Saccò domenica 17 maggio 2020

Una montagna di dollari

Lo scorso dicembre un gruppo di economisti, finanzieri, manager e banchieri centrali si riuniva a Washington per ragionare sulla domanda posta da un nuovo libro pubblicato da quattro economisti della Banca Mondiale. La domanda era questa: ognuna delle quattro grandi ondate di accumulo di debito che abbiamo visto nell’ultimo mezzo secolo ha portato a una crisi mondiale; che ne sarà della quinta ondata, iniziata nel 2010, più grande di tutte quelle precedenti e ancora in corso?

In quegli stessi giorni il nuovo coronavirus si diffondeva tra la popolazione di Wuhan e si preparava a scatenare un’esplosione del debito globale che nessuno degli autorevoli partecipanti alla tavola rotonda della Banca Mondiale poteva solo immaginare. Tutti i governi del mondo stanno raccogliendo denaro per finanziare le spese sanitarie, gli aiuti alla popolazione e gli stimoli per l’attività economica. La quinta ondata di debiti si sta gonfiando spaventosamente. L’Istituto di finanza internazionale (Iif), che associa banche e organizzazioni finanziarie di settanta Paesi, nel suo ultimo Global Debt Monitor ricorda che il debito mondiale complessivo di governi, famiglie e imprese nel 2019 è salito di 10mila miliardi di dollari, raggiungendo il nuovo record di 255mila miliardi. È il 322% del Pil globale e il 40% in più rispetto ai livelli del 2008. Di quei 255mila miliardi, 74mila sono debiti delle aziende non finanziarie, 70mila dei governi, 63mila delle società finanziarie e 48mila delle famiglie. Soltanto a marzo le emissioni di titoli di Stato nel mondo sono ammontate a 2.100 miliardi di dollari, altro record e livello più che doppio rispetto alla media degli ultimi tre anni. Con una stima sommaria, l’Iif prevede che il debito mondiale quest’anno potrebbe salire dal 322 al 342% del Pil. Il rapporto tra debito pubblico e Pil mondiale, conferma Ubs in una sua analisi di fine aprile, salirà di 20 punti percentuali entro la fine del 2022 per superare per la prima volta nella storia il 100%.

Gran parte di questo nuovo debito arriverà dalle economie avanzate. A partire dagli Stati Uniti, che si preparano a chiudere l’anno con un deficit di quasi 4mila miliardi di dollari, seguiti dal Giappone, che farà un deficit di circa mille miliardi di dollari. L’Europa non sarà da meno: nelle previsioni di primavera, la Commissione calcola che quest’anno gli Stati della zona euro avranno una differenza tra costi ed entrate di 942 miliardi di euro. Il debito pubblico complessivo degli Stati della moneta unica salirà da 10.250 a 11.440 miliardi di euro. Le stime del Fondo monetario internazionale sul rapporto debito–Pil 2020 di molti Paesi del G7 sono strabilianti: 131% gli Stati Uniti, 251% il Giappone, 155% l’Italia, 115% la Francia.

L’aspetto positivo, per le economie “avanzate”, è che questo debito, alle condizioni attuali, è sostenibile. Ovunque gli interventi delle banche centrali hanno permesso di mantenere basso il costo del debito: per quasi tutti Paesi più ricchi, Italia compresa, la spesa per pagare gli interessi sul debito pubblico in rapporto al Pil è oggi inferiore a quanto fosse nel 2007, alla vigilia della grande crisi. E questo nonostante il rapporto debito–Pil sia in molti casi aumentato di almeno 40 punti percentuali.

Anche per molte economie “emergenti” il debito è più sostenibile rispetto al passato. Qui però ci sono molte eccezioni. Le economie emergenti, calcola l’Iif, tra imprese e governi hanno debiti in valuta estera per 5.300 miliardi di dollari complessivi, di cui 730 miliardi vanno in scadenza quest’anno. Su una parte di questi debiti c’è un alto rischio di default. Le difficoltà più evidenti sono quelle dell’Argentina, che non riesce a mettersi d’accordo sui creditori per la ristrutturazione di 65 miliardi di dollari di debito e rischia di fare la nona bancarotta della sua storia.

Per le agenzie di rating Buenos Aires è già in default. Non è l’unica. Fitch ha ricordato che quest’anno hanno mancato il pagamento dei loro debiti anche Libano ed Ecuador e che da gennaio ci sono stati 29 tagli dei rating sovrani, di cui otto per Paesi che hanno giudizi bassissimi, sotto il livello CCC (quello che indica «sostanziale rischio di credito: default possibilità reale»). Sono Zambia, Gabon, Mozambico, Repubblica del Congo, Suriname. A rischio anche El Salvador, Iraq e Sri Lanka, che hanno un giudizio B–, anch’esso molto rischioso.

I creditori potrebbero aiutare almeno le nazioni più povere del pianeta. A metà aprile il G20, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno concesso ai 76 Paesi classificati come “a basso reddito” la sospensione dei pagamenti dei debiti, liberando risorse per 20 miliardi di euro complessivi. È un passo avanti, ma in molti casi non è sufficiente. Quei Paesi hanno un debito complessivo di circa 450 miliardi di dollari. Quattordici di queste nazioni povere, calcola l’Unctad, l’agenzia dell’Onu che si occupa di sviluppo, la spesa per pagare i debiti pubblici supera il 20% delle entrate dello Stato. Nel Gibuti è oltre il 60%, in Venezuela e Libano oltre il 40%, in Sri Lanka, Angola e Montenegro oltre il 30%.

La scorsa settimana Kristalina Georgieva, direttore del Fmi, ha aperto a una cancellazione parziale di quei debiti. Ma il Fmi su questo può fare solo opera di persuasione, perché le decisione finali sui debiti spettano agli Stati. E molto, nel caso specifico, sarà deciso in Cina. Il governo cinese controlla tra il 20% e il 30% del debito degli Stati africani e delle loro aziende pubbliche. Parliamo di circa 145 miliardi di dollari. Alcuni governi, come quello dell’Uganda e del Ghana hanno fatto capire che si sarebbero aspettati più sforzi da parte di Pechino per venire incontro a questi Paesi nel momento di difficoltà. Yun Sun, analista del Brookings Institute esperta delle relazione tra Africa e Cina, ha spiegato che difficilmente Xi Jinping sarà disposto a fare il primo passo se ci sarà da cancellare, del tutto o in parte, il debito dei Paesi africani. Ma in un contesto di pressione internazionale e di cancellazione globale coordinata nell’ambito del G20 anche Pechino potrebbe accettare.