Chiesa

La nomina. Repole nuovo arcivescovo di Torino

Riccardo Maccioni sabato 19 febbraio 2022

Don Roberto Repole, 55 anni, nuovo arcivescovo di Torino

Un torinese a Torino. Don Roberto Repole, 55 anni appena compiuti, è il nuovo arcivescovo della Chiesa subalpina. E di Susa avendo unito il Papa le due sedi in persona episcopi, cioè nella figura del pastore diocesano. Subentra a monsignor Cesare Nosiglia dal 2010 sulla cattedra di san Massimo e già prorogato in questo servizio dal Papa, per due anni.

L’annuncio della nomina decisa da Francesco, stamani alle 12 nel santuario della Consolata, la chiesa più amata dai torinesi. Repole è nato il 29 gennaio 1967 a Givoletto, nella città metropolitana di Torino. Ordinato sacerdote il 13 giugno 1992 dal cardinale Giovanni Saldarini, dopo il baccalaureato in teologia nel capoluogo piemontese, ha ottenuto la licenza (1998) ed il dottorato in teologia sistematica (2001) presso la pontificia Università Gregoriana in Roma con una tesi dal titolo «Chiesa pienezza dell’uomo. Oltre la postmodernità: G. Marcel e H. de Lubac». Dal 2011 al 2019 è stato presidente dell’Ati (Associazione teologica italiana). Insegna Teologia sistematica, Ecclesiologia e Ministero ordinato presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, di cui dirige la sezione parallela di Torino.

Singolarmente la nomina del nuovo pastore della Chiesa arriva pochi mesi dopo l’insediamento del neo sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, quasi a significare la svolta attesa dalla comunità subalpina in tutti i campi, dalla politica al terreno economico e sociale fino alla sua dimensione spirituale, dopo la crisi legata al Covid. Un’emergenza su cui è intervenuto più volte. Tante le pubblicazioni di Repole, tra cui “In ascolto della Rivelazione” (Città Nuova); “Seme del Regno. Introduzione alla Chiesa e al suo mistero” (Esperienze); “Come stelle in terra. La Chiesa nell’epoca della secolarizzazione” (Cittadella); “Dono (Rosenberg & Sellier); “La vita cristiana” (San Paolo); “Chiesa” (Cittadella). Nel saggio “L’umiltà della Chiesa” (Qiqajon), sottolineava l’atteggiamento cui è chiamata la comunità ecclesiale oggi. La sua umiltà – scriveva Repole – si radica nell’umiltà stessa di Dio, che in Gesù Cristo si è compromesso con la terra e l’umanità, e le permette di essere il popolo di Dio animato dallo Spirito santo. La Chiesa è umile perché consapevole di essere "in relazione" e "dalla relazione", perché non deve imporre una verità totalizzante, ma vuole proporre una verità che apre alla libertà.

Tra le sue riflessioni, grande attenzione all’importanza della sinodalità, tema affrontato per esempio su “La rivista del clero” nel sesto fascicolo del 2017: Già nella Chiesa antica – spiegava l’arcivescovo eletto di Torino – coesistevano diversi modelli di ministero che sembrano ben accompagnarsi a una prospettiva di miglior sinodalità, che permetta di «pensare al vescovo come principio di unità con e nel suo presbiterio», piuttosto che al di fuori di esso; nel primo caso infatti risulta possibile «leggere più il vescovo a partire dal presbiterio e meno il presbiterio a partire dal vescovo». Tali considerazioni hanno un evidente rilievo pratico: in un tale orizzonte, «uno dei criteri di discernimento per quanti debbano assumere il compito dell’episcopato dovrebbe essere quello di saper anzitutto presiedere un soggetto collettivo quale il presbiterio, con il quale e nel quale discernere, pensare e progettare la vita ecclesiale».

Numerosi anche gli interventi sulla teologia oggi e sulla necessità che, senza nulla togliere ala sistematicità del suo studio, sappia dialogare sempre meglio con il mondo contemporaneo. In un’intervista ad Avvenire spiegava: «Penso che la teologia non possa né debba rinunciare a parlare anzitutto di Gesù Cristo, di Dio, della grandezza dell’uomo e del suo destino, della Chiesa... Insomma, di quei temi che sono, da sempre, la ragione del suo esistere. Temi, peraltro, di cui anche oggi c’è grande sete: per alcuni aspetti – nella crisi di speranza che stiamo attraversando – più che in altri tempi! Il punto è che la teologia non può permettersi il lusso di un linguaggio criptico. E per farlo ha due sentieri da imboccare: essere sempre un servizio al concreto popolo di Dio e alla sua fede vivente; e mantenersi in un dialogo vivo con la cultura del mondo contemporaneo».