Attualità

La storia. Balbir ha denunciato. E lavora in nero

Antonio Maria Mira domenica 22 luglio 2018

Prima Balbir non rideva mai, piangeva sempre. Perché nessuno lo aiutava. Ora ride perché ha trovato chi lo ha aiutato, volontari e istituzioni. Ride perché è libero. Da quando ha denunciato l'imprenditore che lo sfruttava in modo disumano. Lavoro nero, sottopagato, 12 ore al giorno, sette giorni su sette, anche nei giorni festivi, costretto a vivere in una roulotte scassata senza acqua e bagno. E per risparmiare mangiava gli avanzi dell’agriturismo. Tutto ha raccontato ai carabinieri. Così ha ottenuto il permesso di soggiorno per motivi di giustizia, il primo caso in Italia.

E l'imprenditore Procolo Di Bonito, di Pozzuoli ma residente a Latina, è ora sotto processo dopo una brillante inchiesta del Nucleo investigativo dei carabinieri di Latina, resa ancor più efficace grazie alla legge sul caporalato. Una scelta coraggiosa quella del bracciante indiano sikh. Ma deve continuare a lavorare in nero, da un altro imprenditore. Perché il permesso di soggiorno per motivi di giustizia, previsto dalla legge Bossi-Fini, ha una durata solo trimestrale, e questo non basta per avere un contratto regolare. Certo è rinnovabile, ma con pause di settimane dovute alle lentezze burocratiche, nelle quali Balbir torna irregolare. Vive in un luogo che non possiamo rivelare, è tutelato dalle forze dell’ordine, ma non può lavorare alla luce del sole. Davvero un’assurdità. Chi ha denunciato l’illegalità è costretto a lavorare fuori regole. «Io comunque non cambio idea – ci spiega molto convinto –. Ora finalmente sono tornato a ridere. Anche gli amici che prima mi criticavano adesso dicono che ho fatto bene». Balbir Nikah Singh è arrivato in Italia nell’agosto 2004 con un volo aereo per turismo.

Ma poi è rimasto come irregolare, facendo lavori saltuari in provincia di Latina. Finalmente nel 2009 arriva il primo contratto e il permesso di soggiorno. Perché ci sono gli imprenditori sfruttatori, ma molti di più sono i corretti. E Balbir lo trova. Un allevatore di mucche. «Era un bravo padrone. Mi dava 700 euro al mese, la casa con gas e acqua calda, e anche il mangiare». Ma non dura molto. 'Dopo due anni il padrone ha venduto tutto e mi sono trovato per strada'. Così nel 2011, per sua sfortuna, finisce nell’azienda della famiglia Bonito. Nel 2012 ottiene il contratto ma deve pagare 2mila euro. Ha anche il permesso di soggiorno ma quando dopo un anno scade non gli viene rinnovato.

E così per cinque anni con continue promesse dell’imprenditore. Mentre anche il salario di fatto sparisce. 'Non mi pagavano più regolarmente. Lavoravo 10-12 ore al giorno senza fare mai un riposo settimanale. Quando avevo bisogno di denaro, che mando alla mia famiglia in India, ho tre figli e mia moglie è malata, ho sempre dovuto chiederlo insistentemente. Ogni tanto mi davano 20 o 50 euro, che non corrispondevano a quanto scritto nel contratto'. Balbir conosce i suoi diritti, li rivendica, ma gli rispondono in malo modo, come risulta da alcune registrazioni fatte dallo stesso bracciante e allegati agli atti del processo. A questo punto decide di contattare la Comunita indiana del Lazio e la cooperativa InMigrazione che da anni segue le vicende dei Sikh. Scatta la denuncia. La reazione dell’imprenditore è violenta.

'Se chiedi aiuto ti ammazzo e ti butto in un buco'. Ma lui ormai ha scelto. Il 17 marzo 2017 arriva il blitz dei carabinieri che accertano le 'situazioni alloggiative degradanti' di Balbir, costretto tra l’altro a lavarsi col tubo dell’acqua per i vitellini. 'Quella per loro era calda, mentre quella per noi era fredda'. Già, noi, perché insieme a Balbir c’è un bracciante sardo che però, pur vivendo nelle stesse condizioni, non ha mai voluto denunciare. 'I carabinieri - ricorda Balbir - mi dicevano: 'Non ti preoccupare, non avere paura, racconta tutto'. Invece il padrone voleva che scappassi o che dicessi che andava tutto bene. Ma io ho raccontato tutto'. Però è dovuto andare via e anche cambiare scheda telefonica perché l’imprenditore continuava a chiamarlo minacciando o assicurando che avrebbe sistemato tutto.

'Ma perché non lo hai fatto prima?', gli ha risposto Balbir. Lo scorso 4 luglio prima udienza del processo, rinviato ahimè al 12 giugno 2019. Balbir continua la sua vita di bracciante. Ma sorride. 'Sai - mi dice con orgoglio di padre - anche in queste condizioni sono riuscito a far andare all’università i miei tre figli: ingegnere di auto, medico e avvocato'.