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14 aprile 1912. Titanic, la tragedia metafora del Novecento

Alessandro Zaccuri domenica 8 aprile 2012

I più recenti sono due racconti per ragazzi: l’intenso "Il musicista del Titanic" di Sebastiano Ruiz Migone (Interlinea, illustrazioni di Paolo D’Altan) e lo spettacolare "Io, Titanic" di Fulvia Degl’Innocenti, con le tavole di Sonia Maria Luce Possenti (Il Gioco di Leggere Edizioni), dove la tragedia del 14 aprile 1912 è rievocata dal punto di vista della nave. Ma a rendere unico il transatlantico dei transatlantici c’è anche il fatto che la storia letteraria del naufragio precede di buon margine lo svolgersi dei fatti. Lo ricordava già Walter Lord, autore nel 1955 di quel "Titanic, la vera storia" (ora riproposto da Garzanti) che per molto tempo ha rappresentato un punto fisso nella ricostruzione della sciagura: è a partire da questo libro, per esempio, che nel 1958 il regista inglese Roy Ward Baker realizzò il celebre "Titanic latitudine 41 nord", destinato a rimanere il miglior film sull’argomento fino al trionfo del "Titanic" di James Cameron (1997), ora riprosto in 3D nei cinema. Nella prima pagina della sua minuziosa ricognizione, dunque, Lord ricorda come nel 1898 l’altrimenti dimenticato narratore americano Morgan Robertson avesse pubblicato un racconto minatoriamente intitolato Vanità, nel quale una mastodontica nave da crociera va a fondo dopo che lo scafo è stato squarciato da un iceberg. Se la coincidenza non risulta ancora abbastanza significativa, si può aggiungere un dettaglio: il transatlantico immaginato da Robertson porta il nome di “Titan”, giusto per rendere chiara la metafora dell’inganno autodistruttivo nascosto nell’ostinazione del progresso. Si tratta, non a caso, della medesima riflessione suggerita da Gilbert Keith Chesterton in un commento vergato a ridosso della sciagura: «Tutta la nostra civiltà assomiglia invero al Titanic, nella sua potenza e nella sua impotenza, nella sua sicurezza e nella sua insicurezza – annotava l’autore dell’"Innocenza di padre Brown" –. Non c’era alcun ragionevole rapporto fra il livello delle misure previste per il lusso e per il piacere e il livello delle misure previste per il bisogno e la disperazione. Il progetto si era concentrato decisamente troppo sul benessere e troppo poco sul disagio: proprio come lo Stato moderno».Parole sacrosante all’alba del XX secolo e ancor più appropriate, verrebbe da aggiungere, nel tormentato inizio del XXI. Non tutti gli scrittori dell’epoca, però, vollero cogliere questa suggestione morale. Joseph Conrad, per esempio, preferì attenersi alla nuda concretezza dei fatti e, in due articoli usciti nell’estate del 1912, rispolverò tutta la sua competenza di marinaio per mettere in discussione i criteri in base ai quali la «mostruosa Babilonia galleggiante» (come la classificò uno dei passeggeri) era stata concepita. Le conclusioni sono tutt’altro che confortanti e non temono di rasentare il cinismo. Conrad prende atto, tra l’altro, dell’abnegazione dimostrata dai musicisti di bordo, che continuarono a esibirsi per rendere meno drammatiche le pur infruttuose procedure di emergenza (è lo stesso episodio che in seguito sarà analizzato da Theodor W. Adorno ), ma nel contempo afferma che «sarebbe stato più bello se l’orchestra del Titanic si fosse salvata, invece che finire annegata mentre suonava – qualunque melodia stessero suonando quei poveri diavoli». Una visione del tutto capovolta è invece suggerita da Thomas Hardy, il grande romanziere che all’epoca aveva abbandonato la prosa per dedicarsi esclusivamente alla poesia. Nei versi di “La convergenza dei due”, composta a un mese esatto dall’incidente, lo sguardo si posa anzitutto sul fondale, dove giace il relitto di quello che viene definito «l’Orgoglio della Vita». Qui la «Forma di Ghiaccio» e la nave sono raffigurate come una coppia di sposi promessi, secondo la sottile annotazione di un altro straordinario poeta, Iosif Brodskij, al quale si deve una magistrale lettura della “Convergenza dei due”. Scrive Hardy: «Sembravano due estranei: / Occhio mortale non vide / L’intima saldatura che li avrebbe poi congiunti // Né il segno ch’erano destinati / Da vie coincidenti / A essere presto le due metà di un unico solenne accadimento». In queste frasi, suggerisce ancora Brodskij, contempliamo «non la collisione come metafora dell’unione romantica, ma al contrario: l’unione come metafora della collisione». Interpretazione forse discutibile e che però, ancora una volta, risulta più attuale oggi di quanto potesse apparire un secolo fa.