Agorà

Critica. Ecfrasi! Quei giochi fra immagini e parole

Maurizio Cecchetti venerdì 15 settembre 2023

Alberto Savinio, “Orfeo ed Euridice” , 1951 (Firenze, Galleria degli Uffizi)

Ogni volta che in un’opera letteraria ci imbattiamo in una descrizione che rimanda, direttamente o allusivamente, a un’opera d’arte visiva, siamo entrati nel territorio dell’ecfrasi. Viene dal greco ed esistono forme verbali diverse, o meglio strutture verbali diverse, che rimandano all’ecfrasi. In realtà, il termine pone anche una questione di stile, non si tratta solo di una “traduzione” verbale. Non basta spendere parole per descrivere un quadro, occorre una sorta di empatia che avvicina formalmente due arti che non sono affatto sorelle. Lo stesso Roberto Longhi, che sull’ecfrasi ha basato un modo di fare critica, precisandone i confini in quel testo programmatico che furono le Proposte di critica d’arte, con cui inaugurava la rivista “Paragone”, ecco, Longhi metteva in guardia da facili sovrapposizioni o assimilazioni estetiche fra parola e immagine: due linguaggi assolutamente diversi (e uno più “originario” dell’altro, quanto meno nella storia umana, laddove i disegni rupestri precedono la scrittura; ma bisogna anche spendere l’avvertenza che per quelle immagini, benché siamo soliti impiegare il termine arte meglio sarebbe fermarsi prima e trattarle appunto come simboli visivi di qualcosa che spesso, pur riconoscendone il soggetto, non siamo in grado di chiarire completamente; paradossalmente, potrebbe costituire una sorta di primitiva ecfrasi ribaltata...).

L’ecfrasi dunque è una figura retorica, e come tale richiede una certa forma. L’italianista Maria Antonietta Terzoli, già allieva di Dante Isella e che per trent’anni ha insegnato all’Università di Basilea, raccoglie ora per Carocci una serie di relazioni e interventi a convegni dell’ultimo decennio; materiali molto diversi sia per epoche storiche, sia per soggetto d’indagine, sia, infine, come approccio metodologico: Ecfrasi, immaginazione, scrittura (pagine 342, euro 38) tratta appunto di “letteratura e arti figurative da Dante a Gadda” (con un apparato di immagini). Comunque si muova, l’autrice fa continuamente la spola fra gli opposti convergenti del dantesco “visibile parlare”. Il paradossale e “impossibile” gioco di «un visibile da non vedersi», tema variamente affrontato dal filologo e italianista Giovanni Pozzi, il cappuccino di Lugano allievo di Contini, indagando molteplici simbolismi iconicopoetici. Pozzi aveva collaborato con l’artista Enzo Cucchi nella cappella del Tamaro in Ticino componendo le ventidue litane mariane che trovarono dentro la chiesa le corrispondenti formelle del pittore. Una messa in opera della reciprocità differente che segna figura e parola.

L’ecfrasi è un enigma e una macchina complessa, un dispositivo da svelare. Ed è quello che fa Terzoli con Gadda. Sono pagine nate nel 2012 mentre la studiosa dirigeva un team di collaboratori nel monumentale commento al Pasticciaccio di Gadda, uscito nel 2015. Impresa di milleduecento pagine per un romanzo di trecento “non finito”. Ora qui non indugerò sui dettagli, mi interessa mettere in luce piuttosto una sorta di “ipallage” dove lo scambio non avviene più soltanto fra termini all’interno di una frase, ma anche fra ispiratore e ispirato, memoria visiva e memoria letteraria, che nel segno del Gran Lombardo lega, per esempio, Manzoni, Caravaggio e Gadda (che fin da giovane confessa la sua predilezione per il pittore). Così se l’autrice segue Gadda nel Pasticciaccio, scivolando da una fotografia, ai dipinti di Raffaello, Lotto – «L’arcangelo del Lotto sembra avere proprio i tratti del biondo Diomede» e Gadda scrive: «biondo come un arcangelo ma senza spada” –, e ancora Ceruti, e poi Reni, Tura, Carpaccio...

Ma fermiamoci su Caravaggio, dove il riferimento quasi palmare è a Giuditta decolla Oloferne: «quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira» è il calco verbale di Gadda della ruga verticale tra le sopracciglia nel volto adirato dell’eroina biblica. E così, aggiunge Terzoli, stessa ispirazione potrebbe essere venuta a Gadda dalla fantesca, la vecchia la cui somatica si specchia nelle parole dello scrittore. Omaggio a Longhi? Gadda aveva di lui una enorme considerazione, in ragione dello stile di scrittura ricco di neologismi e forgiature, ma è difficile dare una risposta sicura. Del resto, l’ecfrasi evoca l’immagine ma la metamorfizza in parole; non a caso Longhi considerava le sue invenzioni e di altri come logogrifi. E in questa forma, il dato combinatorio e la composizione verbale avevano certamente un valore espressivo forte con sottintesi evocativi.

La stessa compresenza di suggestioni “viste” rende suggestiva ogni verbalizzazione che rimanda a un’immagine. Così «la contaminazione di modelli figurativi è del resto un caso particolare della più ampia contaminazione di modelli culturali e letterari che presiede alla scrittura stessa di Gadda», spiega Terzoli. Non deve dunque meravigliare che uno scrittore colto come l’ingegnere “amalgamasse” nella sua mente molteplici forme visive, che potevano dare spunto a personaggi, suggerendo addirittura una somatica per la stessa parlata nel romanzo; oppure essere omaggi sia all’artista amato, sia al critico apprezzato, o alle mille derivazioni storiche i cui fili si intrecciano come inventio. Il Gadda critico d’arte è uno dei guadagni più solidi del Commento condotto da Terzoli, e le pagine di questo libro ne furono una sorta di anticipo, che oggi trova posto come materiale di lavoro. Le logiche di indagine si rinnovano sull’influenza reciproca fra pittura e letteratura con la Gerusalemme liberata di Tasso – dove il “parlar disgiunto” è anche, tra l’altro, l’argomento cardine dell’influenza del poeta sui pittori della Padania, i ferraresi, i bolognesi e i veneti del suo tempo. E seppure può essere azzardato, come scrive l’autrice, ricomporre il museo immaginario di Tasso, egli certo rimase influenzato dalla pittura che illuminava le terre dove visse, ma ne divenne anche ispiratore. Così il raffronto fra la Gerusalemme e le immagini della battaglia di Lepanto risulta alla studiosa “forte” «se si tiene conto che le Crociate erano sentite come drammaticamente attuali».

In questo modo, l’ecfrasi può essere anche strumento di denotazione iconologica. Per Petrarca, Terzoli indaga, per esempio, il caso della sovrapposizione fra Cesare e Marco Aurelio nella lettura dei bassorilievi romani che al tempo del poeta si trovavano nella chiesa di Santa Martina, e di cui riverberano nei Trionfi lo scambio di figure. La parte centrale del libro è poi dedicata a Dante, il poeta che più di tutti forse ha usato l’immagine come ostetrica della poesia. E la stessa immaginazione dei tre regni della Commedia ci appare come un’unica grande ecfrasi, che si dipana, creando continue aperture “visive”, come la storia che corre elicoidale svolgendosi in un film attorno alla colonna Traiana nel bassorilievo che narra le gesta dell’imperatore in Dacia.

Infine, un capitolo entra nello spazio degli storici dell’arte raccontando la vicenda di una copia del Perseo e Andromeda di Tiziano. L’autrice trova i riscontri anche pittorici per sostenere che fu dipinta dalla mano di Artemisia Gentileschi quando si trovava a Londra, mentre l’originale di Tiziano era nello studio di Antoon van Dyck, dove probabilmente lo replicò. L’autore della copia, afferma Terzoli, «non ha inteso riprodurne semplicemente il modello, ma misurarsi con l’originale ». Si tratta in effetti di una copia che tanto in alcuni dettagli, quanto nella tavolozza dimostra un piglio autonomo, e può darsi che se competizione col grande veneto vi fu, questa sfida poteva ben venire, anche per concomitanze geografiche, con la figlia orgogliosa di Orazio Gentileschi.