Schiaffino, l'eleganza del campione venuto da lontano
Il 28 luglio 1925 a Montevideo, da una famiglia di emigranti italiani, nasceva uno dei più grandi assi della storia del calcio. Con l'Uruguay fece piangere il Brasile e vinse i Mondiali del 1950

Cento anni fa, il 28 luglio 1925, nasceva il “Pepe”, il bambino dispettoso - nipote di nonno Alberto, pescatore emigrato da Camogli a Montevideo - che avrebbe cambiato la storia del fùtbol. «L’uomo ch'è venuto da lontano, ha la genialità di uno Schiaffino. Ma religiosamente tocca il pane e guarda le sue stelle uruguaiane…», canta Paolo Conte in Sud America. E Paolo Conte, da vecchio tifoso milanista sa che cosa ha significato il “Pepe”, Juan Alberto Schiaffino nella storia del calcio, mondiale. Per Gianni Brera, Schiaffino entrava di diritto nella cinquina dei grandi saggi inarrivabili del folbèr, assieme a Di Stéfano, Pelè, Crujff e Maradona. «Non insegue la palla, è la palla ad inseguire lui. Forse non è mai esistito un regista di tanto valore», vergava estasiato lo scriba Brera. Dall’altra parte dell’Oceano, il sommo scrittore uruguagio Eduardo Galeano, altro scriba massimo, anche di calcio, senza esagerare in partigianeria annotava: «Schiaffino con i suoi passaggi magistrali organizzava il gioco della squadra come se stesse osservando il campo dal punto più alto della torre dello stadio». Questa è storia aurea della letteratura di cuoio, ma personalmente tutto quello che prosaicamente so su questo genio assoluto del calcio, ingiustamente dimenticato, lo devo a un raro galantuomo della panchina, l’altrettanto ingiustamente dimenticato, mister Luigi Bonizzoni (1919-2012).
Il geniale "Pepe" Schiaffino nei ricordi di "Cina" Bonizzoni il mister del Milan
Per gli amici il “Cina”, come fu ribattezzato durante una partita da ragazzi dallo stesso Gianni Brera per via di quei suoi occhi mandorlati, da “cinese”. Ogni incontro con Cina Bonizzoni, ormai anziano nella sua casa di Ossona, terminava con un aneddoto sul Pepe e la sentenza finale: «Per me tra Pelè e Maradona, il più grande di tutti è stato Schiaffino. Io li ho visti giocare tutti e tre, ma il Pepe l’ho allenato e gli ho voluto bene come a un fratello minore e tu non puoi immaginare come si muoveva e cosa riusciva a fare in campo... Il Pepe danzava sui tacchetti ed era un tango di Gardel, che poi tanti dicono che fosse uruguayano come lui e non argentino. Ma questa è un’altra storia». Il nome di Schiaffino con stima e affetto infiniti rimbalza continuamente nell’autobiografia di Bonizzoni, Il futuro di ieri. Quando il calcio è umanesimo (Book Time) in cui ricorda la volta che «al campo di Linate, sotto la pioggia chiuso in macchina con Gipo Viani, vedemmo “due Schiaffino” in campo... L’altro era il 16enne Gianni Rivera».
Per gli amici il “Cina”, come fu ribattezzato durante una partita da ragazzi dallo stesso Gianni Brera per via di quei suoi occhi mandorlati, da “cinese”. Ogni incontro con Cina Bonizzoni, ormai anziano nella sua casa di Ossona, terminava con un aneddoto sul Pepe e la sentenza finale: «Per me tra Pelè e Maradona, il più grande di tutti è stato Schiaffino. Io li ho visti giocare tutti e tre, ma il Pepe l’ho allenato e gli ho voluto bene come a un fratello minore e tu non puoi immaginare come si muoveva e cosa riusciva a fare in campo... Il Pepe danzava sui tacchetti ed era un tango di Gardel, che poi tanti dicono che fosse uruguayano come lui e non argentino. Ma questa è un’altra storia». Il nome di Schiaffino con stima e affetto infiniti rimbalza continuamente nell’autobiografia di Bonizzoni, Il futuro di ieri. Quando il calcio è umanesimo (Book Time) in cui ricorda la volta che «al campo di Linate, sotto la pioggia chiuso in macchina con Gipo Viani, vedemmo “due Schiaffino” in campo... L’altro era il 16enne Gianni Rivera».
L'eroe del "Maracanazo" viene a giocare in Italia e diventa il "maestro" di Rivera
Era il 1959 la stagione dello scudetto del Milan di Bonizzoni. Il secondo dei tre tricolori che il Pepe poté cucirsi al petto con la maglia rossonera, dopo che era atterrato in Italia nel 1954, pagato la bella somma di 52 milioni dal commendator Andrea Rizzoli per averlo dal Peñarol. Stella tra le stelle rossonere, il fuoriclasse della Celeste arrivava in Italia quattro anni dopo essere salito sul tetto del mondo e conquistata la Coppa Rimet. Il 16 luglio 1950, a Rio de Janeiro, il Pepe aveva fatto piangere il Brasile, precipitato nell’indelebile psicodramma popolare del Maracanazo. In 200mila quel giorno allo stadio Maracanà assistettero alla disfatta della Seleçao, a cui sarebbe bastato un pareggio, ma Schiaffino, assieme a Ghiggia, firmò quel 2-1 che incoronava il piccolo grande Uruguay campione del mondo. Nel ’58 Schiaffino provò a portare il Milan sul trono d’Europa, ma dopo aver realizzato una tripletta nella semifinale della Coppa dei Campioni contro il Manchester United, il Pepe dovette inchinarsi in finale al Real Madrid del geniale argentino, anche lui figlio di emigrati italiani, Alfredo Di Stéfano. «Il Pepe era grande come Di Stéfano – ripeteva il Cina -. Era un generoso, sempre leale, umile come tutti i grandi, con un unico capriccio: sua moglie Angelica doveva tassativamente viaggiare con il Milan. Così in trasferta stava sempre con noi, in aereo o in treno, e alla sera, nell’albergo del ritiro, Angelica andava a dormire con suo marito nella stanza matrimoniale che gli veniva puntualmente riservata. Era un privilegio, da contratto, ma basta questo per fa capire la serietà e l’attaccamento del Pepe alla moglie. Schiaffino era il sentimento e la professionalità fatta persona».
Era il 1959 la stagione dello scudetto del Milan di Bonizzoni. Il secondo dei tre tricolori che il Pepe poté cucirsi al petto con la maglia rossonera, dopo che era atterrato in Italia nel 1954, pagato la bella somma di 52 milioni dal commendator Andrea Rizzoli per averlo dal Peñarol. Stella tra le stelle rossonere, il fuoriclasse della Celeste arrivava in Italia quattro anni dopo essere salito sul tetto del mondo e conquistata la Coppa Rimet. Il 16 luglio 1950, a Rio de Janeiro, il Pepe aveva fatto piangere il Brasile, precipitato nell’indelebile psicodramma popolare del Maracanazo. In 200mila quel giorno allo stadio Maracanà assistettero alla disfatta della Seleçao, a cui sarebbe bastato un pareggio, ma Schiaffino, assieme a Ghiggia, firmò quel 2-1 che incoronava il piccolo grande Uruguay campione del mondo. Nel ’58 Schiaffino provò a portare il Milan sul trono d’Europa, ma dopo aver realizzato una tripletta nella semifinale della Coppa dei Campioni contro il Manchester United, il Pepe dovette inchinarsi in finale al Real Madrid del geniale argentino, anche lui figlio di emigrati italiani, Alfredo Di Stéfano. «Il Pepe era grande come Di Stéfano – ripeteva il Cina -. Era un generoso, sempre leale, umile come tutti i grandi, con un unico capriccio: sua moglie Angelica doveva tassativamente viaggiare con il Milan. Così in trasferta stava sempre con noi, in aereo o in treno, e alla sera, nell’albergo del ritiro, Angelica andava a dormire con suo marito nella stanza matrimoniale che gli veniva puntualmente riservata. Era un privilegio, da contratto, ma basta questo per fa capire la serietà e l’attaccamento del Pepe alla moglie. Schiaffino era il sentimento e la professionalità fatta persona».
L'amore di sua moglie Angelica valeva molto di più di un Mondiale
Un professionista unico, il “maestro di Rivera” e di tanti illustri allievi, capace di inventare giocate di pura fantasia per segnare o mandare in gol i compagni (44 quelli segnati nelle 149 gare con il Milan). Un tattico che la leggenda vuole sia anche l’inventore del “tackle”, l’entrata difensiva decisa di cui fece ampio sfoggio quando nell’anno olimpico, 1960, passò alla Roma del presidente ebreo Renato Sacerdoti che per avere Schiaffino in giallorosso sborsò la cifra record di 100 milioni di lire. In campo, con la saggezza del 35enne il Pepe vinse ancora una Coppa delle Fiere (antenata della Coppa Uefa), fu maestro del giovane Picchio De Sisti, scalando da centrocampo nelle retrovie e terminando la carriera da libero. Condizione, quella di “uomo libero” esercitata per tutta la sua vita che si chiuse a Montevideo, nel 2002. «Quando Schiaffino rientrò in Uruguay mi spedì delle lettere raccontava Bonizzoni - . Rileggo spesso una delle ultime in cui scriveva: “Caro Mister, non posso dimenticare l’importanza e la collaborazione dell’allenatore, ma soprattutto quella dell’uomo”-. Quando Angelica è morta, sapevo che il Pepe non gli sarebbe sopravvissuto a lungo. Ogni volta che scendeva in campo la prima cosa che faceva era cercare in tribuna lo sguardo della moglie, che lo ricambiava sempre con due occhi pieni d’amore. Si salutavano e solo allora lo spettacolo poteva cominciare».
Un professionista unico, il “maestro di Rivera” e di tanti illustri allievi, capace di inventare giocate di pura fantasia per segnare o mandare in gol i compagni (44 quelli segnati nelle 149 gare con il Milan). Un tattico che la leggenda vuole sia anche l’inventore del “tackle”, l’entrata difensiva decisa di cui fece ampio sfoggio quando nell’anno olimpico, 1960, passò alla Roma del presidente ebreo Renato Sacerdoti che per avere Schiaffino in giallorosso sborsò la cifra record di 100 milioni di lire. In campo, con la saggezza del 35enne il Pepe vinse ancora una Coppa delle Fiere (antenata della Coppa Uefa), fu maestro del giovane Picchio De Sisti, scalando da centrocampo nelle retrovie e terminando la carriera da libero. Condizione, quella di “uomo libero” esercitata per tutta la sua vita che si chiuse a Montevideo, nel 2002. «Quando Schiaffino rientrò in Uruguay mi spedì delle lettere raccontava Bonizzoni - . Rileggo spesso una delle ultime in cui scriveva: “Caro Mister, non posso dimenticare l’importanza e la collaborazione dell’allenatore, ma soprattutto quella dell’uomo”-. Quando Angelica è morta, sapevo che il Pepe non gli sarebbe sopravvissuto a lungo. Ogni volta che scendeva in campo la prima cosa che faceva era cercare in tribuna lo sguardo della moglie, che lo ricambiava sempre con due occhi pieni d’amore. Si salutavano e solo allora lo spettacolo poteva cominciare».
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