Vite da “passeur” nel buio delle foreste dei Balcani
In concorso alla Settimana della critica l'intenso documentario “Waking Hours”: i registi Cammarata e Foscarini seguono il passaggio dei migranti al confine tra Serbia e Ungheria

Partiti per filmare un raro evento naturale nei boschi della Serbia, due giovani registi italiani si ritrovano, inaspettatamente, nel cuore della rotta balcanica. È la genesi del documentario Waking Hours – Ore di veglia, di Federico Cammarata e Filippo Foscarini, prodotto da Volos Films Italia e Cosma Film, in concorso alla Settimana Internazionale della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia.
«Questo film è nato per errore», raccontano ad Avvenire. «Nel 2023 eravamo a nord della Serbia per riprendere la “fioritura del Tibisco”, un fenomeno unico in cui, per una sola notte all’anno, migliaia di effimere, insetti che dopo una gestazione di tre sul letto limaccioso del fiume, emergono e volano al tramonto vivendo un solo giorno». Ma mentre attraversano la foresta, i due si imbattono in uno dei tanti gruppi che controllano le foreste: bande di passeur, migranti e una presenza militare crescente. Partiti per pochi giorni, rimangono quasi un mese.
Guidati da una ONG, conquistano la fiducia di un gruppo di passeur afghani che vivono nei boschi da anni, in accampamenti di fortuna, riscaldati solo dal fuoco. Accompagnano disperati attraverso il confine serbo-ungherese, oltre una doppia barriera elettrificata e spinata, usando scale rudimentali.
L’intuizione dei registi è radicale: non un reportage, ma raccontare queste “vite umane effimere” attraverso un’esperienza immersiva e poetica immersa nel buio (l’ideale sarebbe vedere il documentario in sala). Nessun giudizio, nessuna voce fuori campo, solo il buio della foresta, i versi di civette e sciacalli che fanno rabbrividire, le lanterne che si muovono tra gli alberi, i bagliori di un temporale lontano. Come fantasmi, ombre camminano in fila. Una inquietante voce registrata, diffusa da altoparlanti sulle recinzioni ungheresi, intima ai migranti di non proseguire. In lontananza, taxi lasciano passeggeri ai margini del bosco dove verranno raccolti dai clan; poi buio, poi un fuoco acceso. La camera si avvicina lentamente: due uomini afghani parlano di visti, passaggi, ma anche del freddo, della famiglia e della nostalgia per la loro vita passata.
«Abbiamo girato solo di notte e con luce naturale», spiegano ad Avvenire. «Il focolare è metafora del racconto. Volevamo restituire umanità a queste persone, di cui spesso non si parla. C’è molta strumentalizzazione. La realtà è molto più complessa di quanto si pensa».
Chi sono i passeur? Alcuni arrivano lì apposta per guadagno, ma molti sono ex migranti, respinti più volte dall’Europa e senza possibilità di rientrare nei Paesi d’origine. Vivono in un limbo, costretti a sopravvivere aiutando altri ad attraversare. «Condividono i rischi, ma sono solo l’ultimo anello della catena. I veri trafficanti sono lontani, con il colletto bianco, e gestiscono il business dalle origini alla destinazione finale». I costi del viaggio possono superare i 10mila dollari, di cui 3mila solo per passare quel tratto di confine.
«Abbiamo scelto una contro-investigazione poetica e civile, che non cerca colpevoli, ma crea ascolto». I due registi sono tornati in autunno negli stessi luoghi dove il freddo è tagliente, condividendo le notti con questa umanità al margine. Nel secondo viaggio incontrano anche Frontex, la polizia europea di frontiera, dispiegata sul lato serbo. «Non è sempre chiaro chi sia il migrante e chi il contrabbandiere. Uno dei protagonisti racconta di essere stato più volte in Europa, poi respinto. Alla fine, ha deciso di restare nei boschi e aiutare altri». Tra i tanti incontrati: afghani, siriani, pakistani, marocchini, tunisini. Alcuni si identificano con nomi di battaglioni militari, in un contesto in cui la violenza tra bande è all’ordine del giorno. «Proprio per questi scontri, l’area è stata militarizzata. E noi eravamo lì senza alcun permesso» rivelano.
Una settimana dopo il loro ritorno in Italia, a novembre, ricevono una telefonata da uno dei ragazzi del gruppo con una drammatica richiesta d’aiuto: erano nascosti da tre giorni lungo il confine ungherese, senza cibo né acqua. La ONG No Name Kitchen conferma che l’area è diventata inaccessibile: la polizia ha “ripulito” i boschi, trasferendo le persone nei centri di detenzione a sud della Serbia. «Di loro non si sa più nulla - aggiungono i registi -. Durante l’operazione, né Frontex né la gendarmeria serba hanno fatto distinzioni tra migranti e trafficanti. Tutti sono stati criminalizzati».
«Questa esperienza ci ha cambiati anche umanamente», concludono Cammarata e Foscarini. «La via dell’impegno che abbiamo intrapreso non si fermerà».
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