Stéphan Brizé: «Umanità è diritto al lavoro»
Il regista francese ha ricevuto il prestigioso riconoscimento promosso dall'Ente dello Spettacolo nell'ambito della Mostra del Cinema di Venezia

«Per la capacità di parlare dell’uomo e del lavoro, dell’anima e dell’impegno, senza mai sottrarsi alla dignità e alla complessità». Con questa motivazione ieri è stato assegnato il 26° Premio Robert Bresson a Stéphane Brizé, regista e sceneggiatore francese, all’Hotel Excelsior, nell’ambito dell’82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il riconoscimento è conferito dalla Fondazione Ente dello Spettacolo, presieduta da monsignor Davide Milani, e dalla Rivista del Cinematografo, con il patrocinio del Dicastero per la Cultura e l’Educazione e del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede.
«Il regista francese colloca la macchina da presa nelle zone dolenti del nostro stato dell’arte e non scende a compromessi: necessità umana e virtù cinematografica» ha letto monsignor Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei, nel consegnare il premio a Brizé insieme all’attrice Alba Rohrwacher, protagonista del suo film Le occasioni dell’amore (2023) e di un nuovo lavoro appena girato da regista, nelle sale il prossimo anno.
Per un regista francese come lei, che significa ricevere il Premio Bresson?
«È un privilegio riceverlo, anche perché è stato assegnato a registi che ammiro profondamente, come Ken Loach. Da ragazzo, a casa mia si guardavano solo commedie con Louis de Funès o film d’azione con Belmondo. Oltre ai testi scolastici, non avevo letto nulla. Mi ero diplomato in elettrotecnica, ma qualcosa mi spinse a prendere un treno per Parigi e iscrivermi a una scuola di teatro. Lì ho capito che non volevo stare davanti alla macchina da presa, ma dietro. Non fui ammesso alla prestigiosa Accademia “La Femis”, quindi sono un autodidatta. Ricordo ancora quando entrai in una libreria, senza avere mai girato nulla, e comprai per la prima volta un libro: Note sul cinematografo di Robert Bresson. Alcuni suoi insegnamenti hanno plasmato il mio cinema: come l’idea che siano i sentimenti a generare gli eventi, e non il contrario. C’è un filo invisibile che unisce il giovane entusiasta che ero e l’uomo e regista che sono oggi. Ma chi tiene quel filo, solo Dio lo sa».
Il tema del lavoro è centrale nella sua cinematografia: come mai?
«Non mi interessa fare film sul “lavoro” in senso stretto. Se dicessero “andiamo a vedere un film sul lavoro”, neanche io ci andrei. Quello che mi interessa è l’intimità dell’essere umano legata a una situazione professionale. Altrimenti si fa solo sociologia o storia. Nel mondo del lavoro si assiste sempre più spesso a una violenza sotterranea, come se si trattasse di un campo di battaglia invisibile. I miei film raccontano come le persone se la cavano in situazioni complicate, come rispondono a pressioni che trasformano anche le persone migliori. Uomini e donne normali, con la sola voglia di lavorare, vengono spinti a fare scelte difficili, talvolta sbagliate. E lì si vede la responsabilità individuale. Si può avere ragione o torto, ma ognuno è responsabile del male che fa agli altri... e a sé stesso».
Come cineasta sente la responsabilità di raccontare?
«Assolutamente sì. Nel cinema, come nei libri, la distanza tra lo spettatore e la storia può ridursi all’improvviso. Ci troviamo davanti a una vicenda che ci colpisce perché ci riguarda. Abbiamo bisogno delle storie per capirci meglio».
Anche il nuovo film tratta il mondo del lavoro?
«Sì. Abbiamo appena finito di girarlo con Alba Rohrwacher protagonista. Interpreta una responsabile delle risorse umane, immersa nel sistema fino a quando viene travolta dalla propria umanità. Il film si intitola (provvisoriamente) Un bon petit soldat. È la storia di una donna che esegue gli ordini senza coscienza, ma a un certo punto qualcosa si risveglia. Uscirà l’anno prossimo. Sarebbe bello presentarlo proprio a Venezia».
Come nascono i suoi film?
«Non ho grande immaginazione, ma ho un ottimo senso dell’ascolto. Quando preparo un film sul lavoro, parto da un’intuizione, da un personaggio, ma non ho ancora la storia. Inizio a incontrare persone reali. Faccio interviste di due o tre ore e ascolto le loro esperienze. E la cosa sorprendente è che non servono più di 25 o 30 incontri: le storie si somigliano tutte. Che siano uomini, donne, impiegati o operai, tutti raccontano la stessa dinamica. Da lì nasce la sceneggiatura. Il reale ha più immaginazione di me. Io mi limito a restituire la verità che raccolgo».
Oggi la crisi del lavoro è ovunque: come la spiega?
«Assolutamente sì, soprattutto in Europa. È la conseguenza di anni di globalizzazione, di ultra-liberalismo, di deregolamentazione. Quando si impoveriscono le persone, quando i salari scendono e i licenziamenti diventano facili, si genera uno stato permanente d’ansia. E in quel vuoto arrivano gli estremisti, pronti a dare risposte semplici a problemi complessi. I nemici cambiano: oggi in Francia sono gli arabi, un tempo erano gli italiani, prima ancora gli ebrei. Si cerca sempre un colpevole, perché così ci si sente rassicurati. Ma il vero problema è il sistema economico, la gestione delle ricchezze. Quando si inizia a percepirsi tra i più poveri, la storia si ripete. E questo accade anche perché non abbiamo memoria».
Il cinema può fare qualcosa?
«Il cinema può ridare visibilità a ciò che si vuole far sparire. Ma può fare anche di più: offrire una prospettiva. Una possibilità di comprendere, riflettere, scegliere».
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