Nel “Frankenstein” di Del Toro «il mostro è chi gioca a fare Dio»
Il regista in concorso alla Mostra del cinema con la rilettura del romanzo di Mary Shelley. «Viviamo momenti di terrore. Il compito più urgente è restare umani nell'amore e nel perdono»

«Il mostro è chi gioca a fare Dio». Questa la battuta centrale del film Frankenstein di Guillermo Del Toro, ieri in concorso ufficiale alla Mostra del cinema di Venezia, che ribalta la prospettiva in questa nuova sontuosa versione del romanzo di Mary Shelley. Lo scienziato Victor Frankenstein (il febbricitante Oscar Isaac) è colui che sfida Dio per «correggere i suoi errori» sostiene spavaldo, primo fra tutti la morte che gli aveva portato via l’amatissima madre da bambino. Mentre la “Creatura” (un commovente Jacob Elordi) da lui assemblata è innanzitutto un essere bello e aitante, «una creatura perfetta», dice Del Toro, sensibile come un bambino la cui ferocia sarà determinata dal dolore dell’abbandono del “padre”.
Il romanzo scritto nel 1817 ha prodotto versioni cinematografiche memorabili, ma quello di Del Toro non è un film di orrore (nonostante lo splatter iniziale a suon di cadaveri sezionati non manchi, funzionale però a dimostrare la cecità della scienza se non resta umana), bensì un film d’amore, come è nelle corde del regista messicano noto per le sue fiabe ricche di bellezza visiva e musicale. Nelle sue due ore e mezza il film riesce a virare da prodottone tv targato Netflix verso le atmosfere romantiche de La Forma dell’acqua che meritò due Oscar a Del Toro, riuscendo a porre domande etiche pur nella spettacolarità dell’avventura. Il film si apre su una nave danese incagliata tra i ghiacci dei mari del Nord, dove trova rifugio Victor Frankenstein inseguito dalla sua terribile Creatura. Il film si divide in un primo e un secondo atto, in cui lo scienziato e il mostro espongono la storia ognuno dal proprio punto di vista al capitano della nave. Frankenstein, spinto dall’ambizione di superare i confini della scienza per creare la vita, non esita a sperimentare come un forsennato sui cadaveri di condannati a morte o di soldati. Nel frattempo si innamora di Elizabeth, fidanzata del fratello William, che è un contraltare alla sua coscienza: lei, cresciuta in convento, vede nella Creatura con cui instaura un rapporto speciale, la bellezza del diverso e, soprattutto, «la purezza dello spirito di Dio». Ben presto lo stesso Frankenstein, che rifiuta la sua creatura condannandola a vagare sola e scacciata dagli uomini, si rende conto di avere fallito nella missione per avere pensato a creare un corpo, senza porsi il problema dell’anima. Un’anima che invece cresce sotto le cicatrici di una Creatura vulnerabile, alla disperata ricerca di affetto che precipita nella violenza. In questo tragico conflitto archetipico tra padre e figlio, solo il perdono potrà portare una luce e sostituire davvero la vita alla morte.
«Abbiamo potere di azione e il perdono è l’inizio della ricostruzione della pace» spiega Del Toro al Lido, insieme al cast fra cui figura Christoph Waltz, nei panni di un industriale delle armi che finanzia il progetto dello scienziato con l’illusione di poter vivere in eterno.
«Io sono cresciuto in un ambiente cattolico fervente e non capivo bene questa storia dei santi. Quando da bambino ho visto Boris Karloff in Frankenstein ho visto in lui una sorta di Messia» spiega il regista che ha ribadito per ben tre volte in conferenza stampa di essere cattolico, «o perlomeno lo ero» aggiunge con un po’ di rimpianto. Ma la sua sensibilità lo è e le questioni etiche da lui poste sono molto chiare, anche a costo di rivedere la storia originale con vistose licenze che addolciscono la figura del mostro. «Da cattolico sono attratto dalle parabole, io racconto storie, le conclusioni le traete voi». Lo scopo, aggiunge, è «porre domande urgenti»: a chi spetta dare la vita o toglierla? Quale rapporto ha l’umanità con la morte? Cosa significa essere diverso? «Viviamo in momenti di terrore e intimidazione – conclude il regista -. Sin dall’inizio il romanzo mette al centro le cose che ci rendono umani, non c’è compito più urgente che restare umani, in questi tempi di polarizzazioni, e accettare gli esseri umani nelle loro diverse sfumature. Ribadire il nostro diritto all’imperfezione, il diritto a comprenderci».
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