Franco Mussida: «Curo con la musica e con una fondazione»
Parla l’ex chitarrista della Pfm, in libreria con l’autobiografia “Il Bimbo del Carillon”: «Con il Cpm da 40 anni formiamo musicisti e operiamo nelle carceri e nelle comunità con la forza dei suon

Un bambino. E un sogno. E’ partito da questo binomio Franco Mussida per indagare il mistero della musica. Non solo perché la musica è il nostro alfa con il suono primordiale, quasi onirico, dell’acquatico ambiente prenatale. Ma anche perché quel suono appartiene a una sorta di inconscio, vista la dimensione esistenziale non ancora mondana di un nascituro. Sensi incantati, ispirazione di una vita in armonia che Mussida ci racconta nel suo bellissimo libro Il Bimbo del Carillon (Salani, pagine 400, euro 20.00). Autobiografia come strumento per svelare la Musica incommensurabile entità meritevole per l’autore, in ogni sua declinazione (tranne la parola musicista), della lettera maiuscola.
Alla fine degli anni Quaranta (Mussida è del ‘47), nella periferia di Milano, un bambino gattona sul pavimento attirato da un oggetto sconosciuto. Si tratta di una scatola di legno che libera nell’aria magici suoni cristallini: quel bambino ha appena incontrato la compagna fedele di tutta la sua vita. Il co-fondatore della Premiata Forneria Marconi, nel 1971, non racconta mai in prima persona. E’ quel bimbo del carillon ad agire lungo tutta la narrazione, da rabdomante della Musica e ineffabile spirito guida.
«Avevo cominciato a scrivere nel 2012 più di un centinaio di pagine sull’inizio del mio cammino musicale, i primi vent’anni, con un occhio molto soggettivo – svela il chitarrista e compositore che dal 1987 tiene laboratori musicali in comunità e in istituti di pena ed è stato fondatore tre anni prima del Cpm, oggi Istituto di Alta formazione autorizzato dal Ministero dell’Università e della Ricerca al rilascio del diploma accademico in Popular Music -. Mi sono però a un certo punto fermato, per iniziare invece a riflettere sugli effetti della Musica sulla struttura emotiva della gente. Ne è uscito Il pianeta della musica, pubblicato nel 2018. Ho poi ripreso in mano l’autobiografia, ma scrivendo in terza persona per mettere il silenziatore al mio Io per mettere al centro la Musica».
Musica come entità quasi soprannaturale?
«Direi come dono, di cui c’è in me piena comprensione. In questo senso mi sento sempre più rappresentante degli ascoltatori, che siamo tutti noi. Anche per questo motivo ho voluto in qualche modo uscire dal mondo dello spettacolo (il 15 marzo 2015 Mussida ha lasciato la Pfm, ndr). La musica, diventata perlopiù spettacolo, non è nata per questo. La sua natura è un’altra».
Con la Pfm comunque non faceva musica costruita a tavolino…
«Certamente no. Il progressive è stato una forma di aggregazione per costruire semmai elementi di novità. I nostri primi tre album ne sono la sintesi, l’essenza: Storia di un minuto, Per un amico e L’isola di niente dal 1971 al 1974. Ma io non ho mai utilizzato volentieri l’espressione rock progressivo perché la trovo sbagliata. Semmai parliamo del movimento musicale progressive. Che è stato all’epoca l’equivalente della fusion nel jazz. Tra il 1967 e il 1974 sono cambiate molte cose nella nostra realtà».
In cosa è consistita questa rivoluzione musicale?
«Progressive e fusion hanno provato a integrare diversi linguaggi musicali che creano forme sempre nuove a seconda degli elementi specifici che tu inserisci. Nel progressive c’è l’improvvisazione come nel jazz e c’è il rigore nella scrittura e negli arrangiamenti come nella musica classica. Poi c’è anche la necessità di utilizzare la parola per aiutare il racconto immaginativo, ma al di là della forma canzone, in una maniera molto differente. Era un genere sonoro che suggeriva mondi».
Poi lei della musica ha fatto uno strumento per suggerire mondi a chi aveva perso il contatto con il proprio…
«Sono quasi 40 anni che con il Cpm portiamo la musica nelle carceri, una quindicina. Ma anche in due comunità di recupero. Mi propongo di incitare le persone, attraverso il mezzo della musica, a fidarsi della propria dimensione emotiva per percepirla e conoscerla in profondità. Ma non sono sedute psichiatriche. La musica, quella che io chiamo l’altra musica, illumina la nostra natura interiore. E’ armonizzazione della vita e della morte che sono in noi. In tanti anni abbiamo visto incredibili risultati».
E’ questa la sua missione nel pianeta della musica?
«Ciò che mi dà pienezza interiore è percepire la vita fisica e la vita emotiva come due mondi uniti che occorre abbracciare con coscienza, vanno compresi come due lati della stessa medaglia. La nostra dimensione interiore è imprescindibile ed è educabile. E’ necessario che ne prendiamo coscienza. Dobbiamo lavorare tutti insieme per una ecologia dei sentimenti».
Un’Oasi, insomma?
«Come L’Oasi di Ninfa, a Sermoneta, che racconto nel libro. La visitai nei primi anni Ottanta con l’idea, poi tramontata, di fare una comunità agricola. Ho sempre associato la Musica alla Natura, così avevo scelto come luogo ideale un’oasi, quella appunto di Ninfa, nella pianura Pontina. E lì ripensare alla Musica come l’unica gioia capace di far felice me e la mia famiglia. Ed è emblematico che quell’oasi sia in un ex territorio malarico, di morte. A significare che il bello può nascere proprio dentro l’inferno. Allo stesso modo dentro al cuore dell’uomo, elemento di distruzione del mondo, può manifestarsi l’immensità. Quindi è l’uomo il protagonista nel creare bellezza. E la Musica è il suo strumento».
E lei?
«Io mi impegno per far capire agli ascoltatori, tra i quali mi metto, che la musica a prescindere dalle sue forme ha una sacralità. Bisogna solo riscoprirne la natura. Così ho anche inaugurato delle audio-teche destinate ai migranti e alle persone richiedenti asilo. Un progetto del Cpm, insieme ad Arca, partendo dalla musica dei vari popoli. Ho lavorato con gruppi di centrafricani francofoni e anglofoni, gruppi di pakistani, del Bangladesh di lingua araba. Musiche che confluiranno in un’audio- teca che fa capo al nostro dipartimento di ricerca».
In cosa consiste questa attività con i carcerati e con i migranti?
«Tocchiamo 27 diversi stati d’animo, ci sono tutti i sentimenti e i loro contrari affrontati appunto attraverso il mezzo sonoro. Occorre però qualcuno che aiuti a comprendere come si ascolta e come si sente. Bisogna recuperare lo stupore. Ciò che evoco quando parlo del suono del carillon che mi folgorò da bambino, con quella sonorità di cristallo che lo rende un archetipo a livello di percezione e che lo porta ad arrivare in profondità. Il primo sentimento che mi assegno nello stare su questo pianeta è proprio l’esplosione di un attimo di meraviglia, associato a un suono. Si diceva che la Musica avrebbe cambiato il mondo. La sua natura non verbale può cambiare l’uomo, nel profondo».
Dall’ideale al reale come si può fare?
«Utilizzando ciò che io chiamo l’altra musica. Che non è né musicoterapia né quella che si sposa con il mondo dello spettacolo. Sta in mezzo e tiene conto del meglio di chi ha avuto in dono la capacità di fare musica. Per questo ho intenzione di costituire una Fondazione e dedicarla alle ricerche sul mondo del suono. Sul mistero che trasforma la musica in emozione. Su come può agire in profondità nel sociale e sui giovani. Non limitandosi a far imparare a suonare uno strumento, ma a far comprendere che abbiamo in noi uno strumento illuminante per la nostra interiorità, che può consentire di diventare migliori. La musica ci può rendere più concordi».
Un appello anche alla politica, a partire dalla scuola?
«Su questo fronte c’è da investire tanto, c’è un mondo con cui poter dialogare. Bisogna fare più ricerca e va fatto conoscere quello che la musica può fare nel sociale, nell’educazione, nella vita quotidiana. Quindi far diventare la musica più strutturata. Sogno che si arrivi a dire: vado ad ascoltare un po’ di musica perché mi fa ricordare questo, perché mi cura, perché mi aiuta. Qualcosa che è essenziale per la vita del cuore e la mente delle persone. Quindi non sarebbe più una questione di musica classica, jazz, prog, rock, trap o rap. Ma di intendere la musica come essenza, ancor prima delle sue molteplici forme. Che, in quanto tali, la riducono».
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