A Parma un Requiem di speranza per Gaza
"Be Candle in the Darkness" la nuova opera di Roberto Bonati debutterà in prima assoluta al Teatro Farnese sabato 27 settembre nell’ambito del Festival ParmaJazz Frontiere

Una luce nel buio. Un grido che si fa musica. Una preghiera laica che intreccia poesia, storia, tragedia e compassione. Questo è Be Candle in the Darkness, la nuova opera di Roberto Bonati che debutterà in prima assoluta al Teatro Farnese sabato 27 settembre nell’ambito del Festival ParmaJazz Frontiere, con la ParmaFrontiere Orchestra. Compositore e direttore, Bonati firma un progetto che va oltre il concerto: un atto di testimonianza civile e umana, un omaggio commosso al popolo palestinese sotto assedio. Uno degli appuntamenti più attesi del ParmaJazz Frontiere Festival che si svolge sino al 7 novembre con un fittissimo calendario.
L’ispirazione viene dai versi del poeta Mahmoud Darwish, voce universale dell’identità palestinese. In particolare dalla poesia Pensa agli altri, in cui l’autore invita a non dimenticare mai chi soffre. «Il titolo – racconta Bonati – viene proprio da lì. L’ultimo verso dice: pensa a te stesso e desidera di essere una candela nel buio. Di fronte alla violenza con cui si sta consumando il genocidio del popolo palestinese, ho sentito il bisogno di accendere almeno quella piccola luce».
Un gesto intimo e politico insieme, ma lontano dalla retorica. «Sono mesi che porto dentro questo dolore. Non riuscivo a stare fermo. La musica non può cambiare il mondo, ma può dire “io ci sono”. Una presenza, anche minima, può essere significativa».
Nella partitura, Bonati intreccia testi antichi e sacri: Terenzio, Virgilio, gli Inni Orfici, il profeta Geremia. Versi che hanno costruito l’identità culturale del Mediterraneo e che oggi, nel contesto di Gaza, risuonano di nuovi significati. «Volevo uscire dalla contingenza. La situazione è complessa e il rischio di strumentalizzazioni è reale. Ma credo che i testi classici possano illuminarci anche nel presente. Sono parole che ci chiedono di non dimenticare l’umano. È un omaggio alla nostra civiltà ferita».
Nella partitura, Bonati intreccia testi antichi e sacri: Terenzio, Virgilio, gli Inni Orfici, il profeta Geremia. Versi che hanno costruito l’identità culturale del Mediterraneo e che oggi, nel contesto di Gaza, risuonano di nuovi significati. «Volevo uscire dalla contingenza. La situazione è complessa e il rischio di strumentalizzazioni è reale. Ma credo che i testi classici possano illuminarci anche nel presente. Sono parole che ci chiedono di non dimenticare l’umano. È un omaggio alla nostra civiltà ferita».
Il primo brano, Il pianto di Rachele, è una meditazione biblica: “Una voce si ode a Rama, di lamento e di pianto. Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata”. Un versetto di Geremia ripreso nel Vangelo di Matteo. «Rachele è la santa delle madri che hanno perso i figli. Ho voluto che questo dolore diventasse universale, sovra le parti».
Segue Can Yunis, brano nato da un’idea singolare: trasformare i nomi delle città più colpite in Palestina in note musicali. «Una trasposizione simbolica, per restituire dignità a quei luoghi cancellati dai bombardamenti. Volevo farli suonare, farli esistere attraverso la musica».
Poi una ballata, più dolce, e un passo dall’Eneide in cui Ilioneo, profugo troiano, chiede ospitalità a Didone. “Non ci lasciano nemmeno scendere a terra”, dice. “Che razza di uomini siete?”. La vicinanza con le immagini odierne è lampante. «Mi ha colpito questo dialogo. I troiani come i palestinesi oggi: senza casa, respinti, inascoltati. Anche allora, il rifiuto era una ferita».
Infine, gli Inni Orfici. «Termino con l’Inno alla Madre Terra, che sembra quasi una preghiera alla Vergine. È un appello a una nuova stagione. Alla possibilità che la Terra, come madre, ci restituisca una fecondità, una speranza». Il lavoro, musicalmente complesso, è intriso di riflessione e tensione etica. «C’è una fatica emotiva fortissima. È un’opera sofferta. Ci sono cose che mai avremmo pensato di vedere, soprattutto da un popolo come quello israeliano, che ha vissuto l’orrore dell’Olocausto. È un dolore che mi ha scavato dentro».
Ma Bonati non vuole fermarsi alla denuncia. Il suo è anche un gesto di fiducia. «Sono pessimista per ragione, ma ottimista per volontà, come dice Gramsci. Questo lavoro è anche uno sguardo verso il futuro. Se c’è ancora qualcosa che possiamo fare, anche solo una piccola cosa, allora che sia fatta con sincerità».
Segue Can Yunis, brano nato da un’idea singolare: trasformare i nomi delle città più colpite in Palestina in note musicali. «Una trasposizione simbolica, per restituire dignità a quei luoghi cancellati dai bombardamenti. Volevo farli suonare, farli esistere attraverso la musica».
Poi una ballata, più dolce, e un passo dall’Eneide in cui Ilioneo, profugo troiano, chiede ospitalità a Didone. “Non ci lasciano nemmeno scendere a terra”, dice. “Che razza di uomini siete?”. La vicinanza con le immagini odierne è lampante. «Mi ha colpito questo dialogo. I troiani come i palestinesi oggi: senza casa, respinti, inascoltati. Anche allora, il rifiuto era una ferita».
Infine, gli Inni Orfici. «Termino con l’Inno alla Madre Terra, che sembra quasi una preghiera alla Vergine. È un appello a una nuova stagione. Alla possibilità che la Terra, come madre, ci restituisca una fecondità, una speranza». Il lavoro, musicalmente complesso, è intriso di riflessione e tensione etica. «C’è una fatica emotiva fortissima. È un’opera sofferta. Ci sono cose che mai avremmo pensato di vedere, soprattutto da un popolo come quello israeliano, che ha vissuto l’orrore dell’Olocausto. È un dolore che mi ha scavato dentro».
Ma Bonati non vuole fermarsi alla denuncia. Il suo è anche un gesto di fiducia. «Sono pessimista per ragione, ma ottimista per volontà, come dice Gramsci. Questo lavoro è anche uno sguardo verso il futuro. Se c’è ancora qualcosa che possiamo fare, anche solo una piccola cosa, allora che sia fatta con sincerità».
Il concerto si chiude con una domanda implicita: può l’arte essere ancora un luogo di incontro, oltre le religioni e le identità? Bonati non ha dubbi: «È un progetto multiculturale e interreligioso. Ci si può parlare, anzi, si deve. È l’unica strada che ci resta».
La sua è anche una critica severa all’Occidente. “ì»Stiamo assistendo a una crisi profonda dei valori fondanti della nostra civiltà. La mancanza di prese di posizione, i ritardi politici, il calcolo geopolitico fatto sulla pelle della gente… tutto questo è gravissimo. È un colpo bassissimo all’idea stessa di umanità».
La sua è anche una critica severa all’Occidente. “ì»Stiamo assistendo a una crisi profonda dei valori fondanti della nostra civiltà. La mancanza di prese di posizione, i ritardi politici, il calcolo geopolitico fatto sulla pelle della gente… tutto questo è gravissimo. È un colpo bassissimo all’idea stessa di umanità».
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