Elisa Palazzi: «Studiamo il clima per curare il creato»

La climatologa: «La Terra ha la febbre, ma la consapevolezza, specie a livello politico, è ancora scarsa. Papa Francesco ha mostrato come l’alleanza tra scienza e spiritualità sia fondamentale»
August 29, 2025
Elisa Palazzi: «Studiamo il clima per curare il creato»
David Fucsku / Unsplash | Hintertuxer Gletscher, Austria
«La mia vita ha coinciso con lo studio del clima», dice Elisa Palazzi, che si dedica a questo tema da sempre sia sul fronte scientifico sia su quello della divulgazione. Oltre a essere professoressa associata di Fisica del clima all’Università di Torino e a studiare i cambiamenti climatici su Alpi, Himalaya e nell’altopiano tibetano, ha infatti ideato il festival torinese su clima e ambiente “Un grado e mezzo” con l’associazione Centroscienza Onlus di cui fa parte. Inoltre, da anni racconta il clima nella trasmissione Geo e nel podcast Bello mondo (disponibile su Spotify), che poi ha dato anche il titolo a un recente volume pubblicato con Federico Taddia per Mondadori. Con Taddia, Elisa Palazzi sarà al Festival Francescano di Bologna venerdì 26 settembre per parlare di “Cantico delle creature al tempo del cambiamento climatico”.
L’occasione per intervistare la studiosa è l’iniziativa ecumenica “Tempo del Creato” 2025, che prende il via il 1° settembre con la XX Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato. È stato papa Francesco a aderire a questa Giornata nel 2015, non a caso nell’anno di pubblicazione della sua Laudato si’.
Professoressa Palazzi, quali sono i segnali di sofferenza che ci sta mandando la nostra “casa comune”?
«I segnali sono tanti e il malessere della casa si ripercuote poi su chi ci abita: esseri umani, animali, specie vegetali. Sono le zone più fredde a subire più delle altre gli effetti del riscaldamento globale, cioè i luoghi del pianeta in cui ci sono ghiaccio, neve, permafrost. Quelle aree sono diventate le sentinelle del cambiamento climatico: possiamo vederle come il canarino nella miniera che ci avverte del pericolo, e ci dicono che la Terra si è riscaldata e continua a riscaldarsi a un ritmo molto più veloce rispetto al passato. Semplificando, potremmo dire che la Terra ha la febbre».
Questo è anche il titolo di un suo libro dedicato ai bambini, Perché la Terra ha la febbre? E tante altre domande sul clima, scritto con Federico Taddia. Ma perché la Terra ha la febbre, come gliel’abbiamo fatta salire?
«Abbiamo alterato l’effetto serra naturale, un meccanismo vitale per il nostro pianeta, dovuto alla presenza positiva di gas, chiamati appunto “gas a effetto serra” che riescono a intrappolare un po’ del calore prodotto dalla Terra assorbendo la luce del sole. Possiamo immaginarli come un piumone (chimico, perché è fatto di gas e molecole chimiche) che mantiene la Terra al giusto tepore. Una coperta indispensabile, perché senza questi gas il nostro pianeta sarebbe congelato: avrebbe una temperatura media di -18° C contro i 15° circa che invece ha oggi.
Ma a partire dalla Rivoluzione industriale abbiamo fatto aumentare la concentrazione di gas serra nell’atmosfera, soprattutto bruciando carbone, petrolio e gas naturale per produrre l’energia che serviva alla popolazione in crescita e con crescenti esigenze dei paesi ricchi, e in secondo luogo con una serie di altre attività come l’agricoltura e l’allevamento intensivi e alcuni tipi di produzione industriale. Bruciare i combustibili fossili e svolgere quelle attività è stato come aggiungere strati e strati di piume alla coperta della Terra, che adesso inevitabilmente ci fa sudare: si accumulano troppo in fretta perché i naturali assorbitori di queste molecole – le foreste, gli oceani con la fotosintesi, i suoli – possano smaltirle».
Quanta febbre ha la Terra in questo momento?
«Dalla Rivoluzione industriale a oggi la temperatura del pianeta è aumentata in media di 1,2° C, che sembrano pochi, ma quando si parla di clima sono tanti. La comunità scientifica ha posto un limite da non superare se vogliamo essere in grado di gestire gli eventi climatici estremi provocati da tale aumento: dobbiamo contenerlo entro 1,5° C da qui al 2100. Rispettare questo limite serve a prevenire rischi che non conosciamo, ma che secondo tutti gli studi scientifici, solidi e autorevoli, potrebbero essere enormi.»
In Bello Mondo spiega che la prima cosa da fare per affrontare la crisi climatica è conoscere il problema. Quali sono le altre scelte concrete che possiamo fare a livello individuale e di comunità?
«Penso che conoscere sia il primo passo, ma bisogna anche condividere la conoscenza e fare comunità, perché l’azione individuale più potente è agire insieme agli altri: c’è grande forza nel gruppo anche piccolo e poi nella pressione politica che il gruppo può fare a tutti i livelli, per chiedere ai nostri amministratori di riorganizzare le città in modo che siano più adatte ai pedoni, che siano sufficientemente verdi e gestiscano bene l’acqua. Poi, naturalmente, ci sono azioni che possiamo compiere a livello individuale: sono utili sia di per sé, sia per dare agli altri un modello positivo a cui ispirarsi. Sono scelte relative ai trasporti, all’alimentazione, alla produzione di energia per le nostre case: con il nostro potere d’acquisto abbiamo un ruolo fondamentale che si esprime attraverso scelte semplicissime e pressoché quotidiane».
E a questo scopo scienza e spiritualità possono darsi una mano a vicenda per custodire il pianeta?
«L’alleanza fa bene di sicuro: l’esempio più lampante sta proprio negli scritti che ci ha lasciato papa Francesco, prima con l’enciclica Laudato si’ e poi con l’esortazione apostolica Laudate Deum. Io che faccio parte del mondo scientifico penso che avere avuto la voce del papa a sostenere le posizioni della scienza sia stato estremamente significativo, anche se poi non mi pare che la politica abbia seguito molto nemmeno le sue parole».
Alcuni suoi libri e attività di divulgazione sono rivolti ai bambini e alle bambine: che visione hanno i più piccoli del clima rispetto agli adulti?
«I bambini e le bambine conoscono il problema perché lo studiano a scuola e soprattutto, a differenza di molti adulti, non fingono che non esista. Quindi la domanda che mi viene rivolta più spesso quando vado a incontrarli è: “Perché non viene fatto niente?” Sono sbalorditi, non se lo spiegano proprio, e io mi trovo in difficoltà a rispondergli. Perché la risposta è netta: non c’è abbastanza consapevolezza e non c’è abbastanza volontà. Negli adulti manca infatti la consapevolezza dei rischi reali che si corrono, manca una cultura della prevenzione del rischio climatico. In più scarseggia la volontà di affrontare problemi che si paleseranno tra chissà quanto tempo (anche se in realtà molti effetti sono già sotto i nostri occhi), quindi siamo molto restii a fare interventi o investimenti per un futuro che magari non vedremo. C’è una sorta di cecità rispetto alle generazioni future, al consegnare a chi verrà dopo di noi un mondo bello come quello che abbiamo ricevuto noi».
A impedire la riflessione e l’azione sono forse anche certi nostri limiti psicologici, legati all’evoluzione della specie?
«Sì, sono stati fatti studi al riguardo. Come esseri umani siamo progettati per gestire e affrontare problemi che si manifestano qui e ora. Anche se si verificano eventi estremi, il cambiamento climatico non è tra questi: le isole del Pacifico che vengono sommerse dall’oceano e gli orsi polari che non hanno più il blocco di ghiaccio su cui stare per afferrare i pesci sono lontani da noi, quindi toccano la sensibilità di pochi. E soprattutto non hanno una connessione così evidente con il fatto che ogni giorno dobbiamo garantire un pasto a chi vive con noi, pensare al nostro lavoro e gestire altre problematiche. Sicuramente c’è questa barriera psicologica, poi in certi casi c’è anche un senso di soffocamento e di ansia legato al riconoscere che il problema è grosso e al sentirsi inermi».
Nel suo lavoro in università lei è in contatto ogni giorno con i giovani: riscontra in loro il fenomeno dell’ecoansia?
«Non so se lo si può definire così, ma mi capita di incontrare studenti disposti a fare scelte dettate dalla paura della crisi climatica. C’era una studentessa bravissima del mio corso che per la tesi di laurea ha scelto un altro argomento, dicendomi: “Non potrei mai avere a che fare con i dati terribili che registriamo sul clima: mi viene l’ansia”. Per contro un’altra studentessa che fin da piccola voleva studiare astrofisica mi ha confidato: “Forse è il caso che io rinunci a questa mia passione per dare un contributo sul cambiamento climatico”. Quindi, pensiamo a cosa sono disposti a fare i giovani: a cambiare vita per fare la propria parte».
Come si fa a parlare di crisi climatica non solo in termini di catastrofe, ma anche di possibilità e speranza?
«Io cerco sempre di comunicare il fatto che la scienza del clima è robusta, sia nel fotografare situazioni negative o di rischio, sia quando ci dice che le soluzioni esistono. Perciò racconto cosa si può fare e si sta facendo, quali scenari positivi si possono prevedere. Poi, siccome la mia vita, da un certo punto in avanti, ha coinciso con lo studio del clima, cerco di far capire che le esistenze di tante persone ruotano intorno a questo tema e possono essere fonte di ispirazione. Ad esempio, ai ragazzi racconto della collega che fa missioni sulla nave oceanografica per studiare il fitoplancton e capire se i processi di fotosintesi sono cambiati: la sua è un’esperienza di studio ma nel frattempo anche un’esperienza di vita che altri possono fare per aiutare il pianeta».

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