martedì 6 marzo 2012
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​Fra Claudio si chiamava Claudio Canali. Prima di scegliere il silenzio nell’eremo della Beata Vergine del Soccorso a Minucciano, in provincia di Lucca, suonava nei «Biglietto per l’inferno». Rock duro e progressivo, ma già allora, negli anni Settanta, c’era un pezzo intitolato «Confessione». Nella sua storia precedente, invece, Swami Atmananda tirava di boxe. Fu don Lorenzo Milani a fargli capire che i pugni non cambiano il mondo. Oggi l’ex pugile vive nell’eremo dell’Armonia Primigenia sul monte Cerva, dalle parti di Catanzaro. Un luogo in cui si medita secondo le pratiche dell’India, ma c’è anche il tabernacolo con il Santissimo Sacramento. Suor Giulia Bolton Holloway, poi. Viene da una famiglia della borghesia intellettuale britannica, è stata cresciuta da un taglialegna scozzese, si è sposata negli Stati Uniti, ha patito la malattia mentale del marito e la fatica di crescere tre figli. Divenuta religiosa anglicana, vive a Firenze, dividendosi tra lo studio della mistica medievale, l’alfabetizzazione dei rom e la cura del cimitero degli Inglesi, di cui è custode. Storie diverse, storie in fondo simili, perché gli eremiti sono esseri umani ridotti all’essenziale. Riportati, appunto, al fondo di verità in cui tutti, quando facciamo i conti con il nostro destino, finiamo per assomigliarci. È anche per questo, forse, che lo scaffale in cui si raccolgono i volumi dedicati ai solitari si arricchisce continuamente. Qualche settimana fa, per esempio, in Un eremo è il cuore del mondo (Piemme) il giornalista Francesco Antonioli ha ripreso un filo che risale alla sua pubblicazione di Cercatori di Dio nel 1996. In quest’intervallo è apparso, tra gli altri, I nuovi eremiti di Isacco Turina (Medusa, 2007), al quale si affianca adesso Eremiti di Espedita Fisher (Castelvecchi, pp. 320, euro 18), probabilmente il più personale tra i vari reportage dell’Assoluto attualmente a disposizione del lettore italiano. Già autrice nel 2007 dell’affascinante Clausura, Espedita Fisher non si limita a raccogliere le testimonianze di fra Claudio, di suor Giulia, di Swami Atmananda e di numerosi altri – primo fra tutti il cardinale Carlo Maria Martini, alle cui parole è affidato il compito di introdurre il libro (e del cui testo pubblichiamo un brano qui a fianco). L’io narrante, in questo caso, diventa personaggio, se non addirittura protagonista, rivelando il paradosso spirituale che sta all’origine dell’esperienza eremitica: occuparsi di sé per dimenticarsi di sé. Il risultato è un incrocio assolutamente irripetibile di pellegrinaggio e romanzo picaresco. Espedita si traveste da uomo per incontrarsi con padre Kosmas sul monte Athos, lavora come cuoca in un ristorante di Roma, riceve misteriose lettere senza mittente, sente voci che le suggeriscono le prossime tappe della ricerca, cerca di collaborare ai giornali e finisce per essere arrestata mentre trascina un tagliaerba lungo l’autostrada in compagnia di Andrej, il viandante visionario arrivato dalla Polonia. La donna insegue l’illuminazione tra boschi e montagne, ma alla fine la luce la travolge mentre si sciacqua la faccia nella scalcinata toilette di un autogrill, secondo una modalità che – una volta di più – allude alla grammatica immutabile delle grandi vicende interiori. Eppure il racconto di Espedita non si sovrappone mai alla voce degli eremiti in cui si imbatte, alcuni serenamente radicati nella tradizione del cattolicesimo (è il caso di Taddeo, polacco anche lui, laico consacrato nell’abbazia di Sant’Eutizio, nel Perugino), altri fautori di sincretismi vertiginosi (Mario Attombri, ovvero il guru Marioji, parla di «D.io» e di «Kristo» dalla cima del Grappa), altri ancora portavoce soltanto di se stessi, come il mite Peppino, che si accontenta di sedersi in contemplazione davanti alla sua casetta nelle campagne di Campobasso. Non a caso, nell’ultimo capitolo Espedita Fisher sembra scomparire e lascia che a parlare siano, uno dopo l’altro, gli eremiti che ha visitato. L’ultima parola spetta all’indecifrabile Beata, che ripete un motto senza tempo: «Dio c’è ed è dentro di Te».
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