giovedì 12 febbraio 2015
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I drammi che i cristiani d’Iraq vivono oggi non sono nuovi. Più volte nella storia questi cristiani sono stati oggetto di persecuzioni molto violente: accadde per esempio a metà del IV secolo, quando i persiani uccisero in Mesopotamia mezzo milione di cristiani e sgozzarono il Patriarca di Babilonia che, da quel giorno, porta una tonaca rossa come simbolo del martirio. Ma hanno saputo conservare la loro fede, forgiata nell’esperienza della prova. Ancora oggi i cristiani d’Iraq rendono una grande testimonianza alla Chiesa universale: nonostante le pressioni degli estremisti che li attaccano e le minacce di morte, nessuno ha abiurato la fede. Hanno pagato cara la loro scelta: abbandono delle case, di tutti i beni ed esilio. Questi cristiani vanno difesi e protetti; i loro diritti vanno fatti valere. Allo stesso tempo la loro fragilità ci dice qualcosa di essenziale del cristianesimo: la vulnerabilità fa parte della nostra vocazione. La potenza, al contrario, rischia spesso di compromettere la nostra testimonianza.Prima di lasciare l’incarico di Patriarca latino di Gerusalemme, nel marzo 2008, monsignor Michel Sabbah scriveva: «I cristiani sono un piccolo numero in questa Terra Santa e nella Chiesa di Gerusalemme. Non è solo la conseguenza di circostanze storiche o sociali. Questa realtà ha un legame diretto con il mistero di Gesù su questa terra. Duemila anni fa venne Gesù, ma i suoi apostoli, i suoi discepoli e i fedeli che credettero in lui erano solo un piccolo gruppo. Oggi, duemila anni dopo, i cristiani testimoni di Gesù nella sua terra continuano a essere pochi. Essere piccoli in questa terra è semplicemente vivere come visse Gesù. Non significa vivere una vita minore, ai margini, o fatta di timori e perplessità. Noi sappiamo perché siamo piccoli, e sappiamo quale posto dobbiamo occupare nella nostra società e nel mondo».Una testimonianza simile è stata recentemente offerta alla Chiesa universale dai monaci trappisti di Tibhirine in Algeria. La loro storia è nota: minacciati da militanti islamisti, i monaci rifiutano di andarsene, ritenendo che il loro compito sia testimoniare una vita di preghiera e di amore universale per il prossimo in un’Algeria devastata dalla guerra civile. Un amore universale che per loro ha significato anche accettare di curare i terroristi quando erano feriti. Nessuna ingenuità, ma una coraggiosa scelta evangelica che pagheranno con la propria vita nella primavera del 1996. Non rispondere alla violenza con la violenza, accettare di essere vulnerabile per rompere il circolo vizioso della violenza che chiama altra violenza, non significa forse semplicemente seguire le tracce di Gesù, che dovette lui pure fare i conti con la violenza e scelse di rispondervi con un amore che accetta e perdona? Anche lui pagò con la vita. È questo l’atteggiamento che nel corso della storia ha guidato molti cristiani.Monsignor Claverie, vescovo di Orano, di fronte al rischio di morte nello stesso contesto algerino, scriveva nel 1995, pochi mesi prima di essere a sua volta assassinato: «In Algeria siamo in un luogo di spaccatura: tra musulmani, tra i musulmani e il resto del mondo, tra il Nord e il Sud, tra i ricchi e i poveri… C’è una spaccatura e un abisso sempre più profondo tra noi e ciò che si trova a un’ora e un quarto di volo da noi. Va urlato ora, è spaventoso! Ma questo è proprio il posto della Chiesa, perché questo è il posto di Gesù. La croce è lo squartamento di colui che non sceglie una parte o l’altra, perché se è entrato nell’umanità, non è per rifiutare una parte dell’umanità. Cerca di tenere insieme i due estremi. La riconciliazione perciò non è semplice, essa non può che avvenire a caro prezzo. Essa può anche provocare, come per Gesù, quello smembramento tra ciò che è inconciliabile. Un islamista e un kâfir (infedele) non sono conciliabili. Allora che cosa scelgo? Gesù non sceglie. Dice: "Io vi amo tutti", e muore».L’orientalista francese Louis Massignon era convinto che l’islam avesse un ruolo nella storia cristiana della salvezza: esso, diceva, è «una lancia evangelica che da 13 secoli stigmatizza la cristianità» e costringe i «privilegiati di Dio» all’eroismo e alla santità. Dura vocazione in realtà e molto difficile da vivere, come rileva lo studioso libanese Mouchir Aoun, che sottolinea «il preoccupante divario tra la vocazione e la condotta»: «I cristiani d’Oriente fanno della loro singolarità la base della loro vocazione nel mondo arabo. A questo proposito essi ritengono che, considerato il loro numero esiguo, la loro lotta ha un senso e un impatto salvifico nel mondo arabo solo se si applicano a valorizzare la particolarità del loro apporto spirituale. Ma è proprio questo il punto debole. Perché la loro condotta sociale e politica contraddice molto spesso la pretesa di una specificità culturale e spirituale. La corruzione della maggior parte della classe politica cristiana, la falsa testimonianza della maggior parte dei membri del clero, il mercantilismo che infetta i rapporti umani, la stravaganza e lo snobismo della classe agiata, l’immoralità degli uomini d’affari e delle famiglie benestanti sono altrettante piaghe che martirizzano le comunità cristiane che vivono nelle società del mondo arabo». La diagnosi potrebbe sembrare severa e riflettere in particolare il contesto libanese nel quale è stata scritta, ma ciò nonostante mette in luce una difficoltà vera: essere all’altezza della testimonianza eroica nel contesto della vita quotidiana.È legittimo che i cristiani d’Oriente cerchino di difendere i loro diritti ed è dovere della comunità internazionale lottare perché possano ritornare nelle loro case e riavere i loro beni. Ne va della loro sopravvivenza e della possibilità di esistenza di società plurali nel mondo musulmano. Allo stesso tempo però possiamo domandarci se la forza della testimonianza dei cristiani non risieda anzitutto nella loro vulnerabilità. Non scegliere i mezzi della potenza e rispondere all’offesa con amore: sono questi i precetti "sovraumani" che Cristo ha dato ai suoi apostoli e a coloro che vogliono essere suoi discepoli.È quanto predicava Pierre Claverie prima di essere assassinato: «Che cosa c’è di più folle che andare incontro alla morte munito solamente di un amore disarmato e disarmante che muore perdonando? E che cosa c’è di più insensato che reclutare i propri discepoli tra i peccatori galilei, i pubblicani, le prostitute e la povera gente? Eppure noi apparteniamo a quel tipo di credenti. Non contabili del lecito e del proibito, non guerrieri di una religione conquistatrice […]. Solo Gesù può condurci sulle vie del Dio vivente: da soli non andremmo oltre la "saggezza dei Greci" che Paolo oppone alla "follia della Croce"». In questo tempo di prova dunque la Chiesa universale è invitata a ricevere i frutti della grazia della testimonianza eroica offerta dai cristiani d’Oriente.
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