domenica 1 maggio 2016
Un padre, una figlia, la vecchiaia. Con leggerezza
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Claude guarda Carole. A volte sembra capirla, a volte il suo sguardo si perde nel vuoto del presente, oppure cerca di accalappiare ancora qualcosa del passato. Ha più di ottant’anni. Ad Annecy, come ricco borghese, dirigeva la sua azienda, si godeva i momenti belli della vita. Una figlia era partita tempo prima per la Florida, lui non sa che è morta, nessuno glielo ha ancora detto e vuole farlo. Su Carole, dunque, che ha anche preso in mano gli interessi della famiglia, grava tutto il peso di quella vecchiaia, della malattia. Vive una situazione talvolta crudele, perché l’affetto – e il rispetto – del padre le vengono a mancare con sempre maggiore frequenza.  Florida è il titolo che Philippe Le Guay ha scelto per il suo film, in sala dal 5 maggio, dopo essere rimasto assai colpito dallo spettacolo teatrale Le père(“ Il padre”) di Florian Zeller. «Florida dava il senso di un’utopia – racconta il regista francese –, di uno stato d’animo, ed è anche il nome del succo d’arancia che Claude pretende di bere ogni mattina, per ricordarsi di una figlia che vuole a tutti i costi rivedere. Per lui è un luogo dove tutto è piacevole, dove ci si sente bene e protetti, dove c’è sempre bel tempo, la sabbia è bianca, l’aria pura. Niente e nessuno ti può fare del male, in Florida». È un film che racconta una fase molto dolorosa della vita, perché a Claude iniziano ad aprirsi crepe nella percezione della realtà e il suo umore, di conseguenza, diventa instabile. Ma nel film questo avviene con una grande leggerezza, non si provano mai ansia, timore, angoscia. «Già mentre scrivevo la sceneggiatura ho lottato perché non fossero questi i sentimenti dello spettatore – conferma Le Guay –. Mi immaginavo un personaggio che affronta questa fase critica con un grande senso dell’umorismo, con una certa fantasia, e ci sono riuscito ispirandomi all’attore col quale avrei lavorato, Jean Rochefort. Penso che il suo sia come un ritratto di Rembrandt: la sua natura, oltre la sua incredibile bravura, danno il tono a tutto il film, come appunto accade in una tela. Con un altro attore il risultato finale sarebbe stato completamente diverso, ci fosse stato Michel Piccoli, ad esempio, il film sarebbe stato, come dire, più brutale. Rochefort non si prende mai sul serio, ha uno stile e un’eleganza molto personali, assomiglia al personaggio di Capitan Matamoros della commedia dell’arte, quindi anche un po’ gigione. Mai mediocre, però. Lavorare con lui, che ha compiuto ottantacinque anni, è stato come attingere a mezzo secolo di storia del cinema francese».  Forse anche per questo la storia di Claude tocca con leggerezza e soavità gli aspetti più dolorosi legati alla sua malattia e al suo carattere. Un equilibrio delicatissimo da ottenere. «Il film è la storia di un re che ha perso il suo reame, ma conserva tutta la sua nobiltà. È tutto costruito su delle rotture di tono, perché Claude è discontinuo, come è discontinuo il suo contatto col mondo e con le persone che lo circondano. Lo spettatore immediatamente percepisce questa situazione e la comprende, senza drammi e paure». Sandrine Kiberlain, che interpreta Carole, sembra avere in comune con Rochefort lo sguardo chiaro e qualcosa di spigoloso nel viso. Dà vita a un personaggio incline alla libertà, senza mai essere una vittima. «È una figlia che prima di tutto ama il padre, anche se lui la obbliga a dargli sempre più attenzione e a sacrificarsi per lui. Durante tutto il film lei aspetta soltanto una parola d’amore, che tarda però ad arrivare». Non si può dimenticare lo sguardo di Carole con il quale si chiude il film e lei prende congedo da noi, dopo aver lasciato il padre in una casa di riposo. «È uno sguardo aperto, guarito. Carole ci lascia un’impressione di riconciliazione, ha fatto pace con sé stessa, si è liberata di tutto ciò che la faceva soffrire. È di nuovo pronta ad affrontare la vita. È luminosa».
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